Fabio Trisorio si libera dalle finzioni di una narrazione smielata per raccontarci una realtà della strada molto più onesta
«Il cane è il migliore amico dell'uomo, finché non ti guarda con quello sguardo quasi giudicante facendoti capire di aver sbagliato tutto nella vita». Fabio sorride, mentre mi dice questa e tante altre cose. Ci troviamo entrambi da Fotosciamanna, quel laboratorio che se sei di Roma non puoi non aver sentito nominare almeno da qualcuno. L'occasione è speciale, perché per la prima volta il suo "Beware of Dog" si mostra al pubblico. Mentre Fabio tenta di accogliere gli ospiti come ogni buon artista dovrebbe fare (con imbarazzo, ma ben nascosto), noto subito che è un fotografo di poche parole. Al contrario delle sue immagini, che appena entri nella sala espositiva sembrano non volersi acquietare mai, lui resiste, mantiene un tono, e con calma mi spiega la sua visione della fotografia di strada e perché il cane sia diventato per lui un'ispirazione, e titolo di un libro.
"Beware of Dog" raccoglie 12 anni di fotografie di strada scattate in giro per il mondo. In questo volume bianco e nero, Fabio ha costruito la sua personale Babele, il luogo dove convergono emozioni personali e manifestazioni di vita prese così come vengono, «perché la fotografia di strada - dice Fabio - raramente ti concede seconde chance. Devi essere veloce, e a volte accontentarti di quello che ti dà sul momento». Il suo è un racconto sincero, che non cerca la poesia, che mischia il brutto e il bello; un lavoro che vuole semplicemente mostrarci il viaggio che contiene tutti i viaggi: quello della vita.
Fino al 28 Febbraio, il suo progetto sarà esposto da Fotosciamanna (Roma), in un'esposizione curata dal collettivo ASA Project. Ma più che la mostra, che ti invito comunque a visitare, a colpirmi è stata questa visione "cagnesca" della quotidianità, un qualcosa che tocca il divino, senza dimenticarsi del ludico. Mi sono fermato così qualche istante con Fabio per capire meglio questa faccenda, ma anche per sfogliare con lui il libro che è davvero un gioiellino di stampa.
Intervista
Il cane è un animale sociale, invadente, a volte burbero e molto spesso animato da un entusiasmo inspiegabile. Pensarlo in un contesto come quello della fotografia di strada, dove la solitudine, il silenzio e la riservatezza si rendono ricetta per la sopravvivenza, mi incuriosisce molto. Perché il cane? E che ruolo ha giocato nella costruzione di "Beware of Dog"?
Il cane è un pò il mio animale guida [ride]. Vedo in lui un filosofo mancato. Una fonte perpetua di ispirazione. Il cane mi trasmette la sensazione del qui e ora, come dire; noi esseri umani siamo abituati a pensare al passato o al futuro, rimuginiamo continuamente su quello che è stato e su quello che sarà. Di tutto ciò al cane frega poco. Lui pensa al presente, a quello che lo circonda. E quando incroci il suo sguardo, sembra quasi volerti rimproverare di star perdendo tempo a inseguire faccende inutili. Ci rivedo tanto di me stesso in lui, come anche nel mio modo di fotografare: un flusso scomposto di cose dove spesso i risultati ottenuti sono un "bona la prima", come nella vita, nella quale non hai sempre seconde chance.

Quindi si, nell'economia di "Beware of Dog" è stato fondamentale. Quel "click" che si rende luce nel buio. È proprio guardando l'archivio, e scovando questo legame con il cane, che mi è balenato in testa il titolo definitivo del libro, che può essere interpretato come un messaggio di "stai in guardia perché c'è un cane" oppure "fai attenzione, perché il cane può confidarti qualcosa pur non parlando".
"Beware of Dog" raccoglie 12 anni di fotografie scattate in strada. Attraverso il tuo sguardo, a tratti cupo ed inquieto, ma non per questo privo di speranza, entriamo dentro una sorta di Metropolis abitata da anime sfuggenti. Che tipo di racconto vuole essere il tuo? Una favola a lieto fine? O un'oscura distopia?
"Beware of Dog" vuole essere quello che semplicemente è: un racconto del reale che tenta di mettere dentro l'enorme contenitore della vita tutte le espressioni che la definiscono, brutte o belle che siano. Scendere in strada vuol dire per me accettare quello che la strada ti offre. Nel tempo essa è diventata un pretesto per cercare di esprimere quello che ho dentro, di riflettere sul mondo senza dover per forza imbellettare la realtà per renderla più poetica di quella che non è. Per questo la mia visione è rude, cinica, spigolosa, non potrebbe essere altrimenti! Sono proprio le asperità del quotidiano che mi permettono di rimanere coerente con la mia narrazione del reale. E mi piace che il pubblico interpreti a modo suo queste asperità. Credo che il fotografo debba parlare pochissimo. Già le immagini fanno tanto.
Immagino che questa estrema sintesi dello sguardo sia frutto di un lungo percorso personale. Non si arriva a concepire una visione così istantanea e rude del reale senza prima fare i conti con se stessi e il mondo, o sbaglio?
Si! Prima facevo una fotografia molto diversa. In passato ero quasi morbosamente concentrato a restituire il reale infiocchettandolo il più possibile di poesia e gesti tecnici. Era una fotografia che sul momento mi divertiva ma che poi non mi lasciava niente. Era come se si dimenticasse a casa quell'enorme bagaglio morale e sociale che la gente si porta invece ogni giorno addosso. Perché dopotutto siamo una società sull'orlo della disperazione. Abbiamo tanti input, tanti problemi, le guerre, la famiglia, la politica, la gestione delle finanze: tutto questo bagaglio di disagio, di sofferenze, di pensieri, sono riuscito a recepirlo soltanto scegliendo di sottrarmi all'ego, per inseguire una fotografia più schietta ed essenziale.
La realtà ha bisogno di una narrazione, ma una narrazione che sia rispettosa della realtà, sennò diventa marketing: una bugia che raccontiamo prima a noi e poi a quelli che ne entrano a contatto.


"Beware of Dog", 2024. Fotografie di © Fabio Trisorio
Se mi chiedi cosa mi abbia fatto cambiare idea, ti direi che è stato l'incontro con un vecchio amico - il fotografo giapponese Ari Takahashi - che mi ha spinto a spostare lo sguardo verso me stesso e a metterlo in relazione con il mondo, senza pensare troppo al "come" ma più al "perché". Una di quelle lezioni di vita che credo non dimenticherò mai.
Ora la mia fotografia è una fotografia del frattempo, ovvero mentre aspetti che accada qualcosa, io scatto, scatto una fotografia; quindi da un momento all'altro io sono lì che catturo momenti che magari non hanno nessun significato, momenti che non hanno nessun valore, forse, ma che tuttavia raccontano un pezzo di vita di qualcuno, e naturalmente, non volendolo, anche di te stesso. Immagini che alternano una dolcissima misantropia unita a istanti di empatia canina e/o umana [ride].

Nelle tue fotografie primeggiano il mosso, le ombre, la grana e gli sguardi languidi dei passanti. Un approccio alla realtà, come mi dicevi, molto schietto, è vero, ma che per la sua radicalità può dar vita anche a diversi malintesi. Ti sei mai preoccupato che "Beware of Dog" potesse rendersi, in qualche modo, "incomprensibile" al pubblico?
Durante la produzione del libro ci abbiamo pensato, certamente. Poi insieme alla mia editor - Giulia Pissagroia - abbiamo capito che l'obiettivo non era quello di dare delle risposte certe, bensì di offrire degli spunti di riflessione. Inoltre era importante per noi mantenere una certa coerenza dello sguardo. Dentro al volume, dovevano starci fotografie che trasmettessero qualcosa, che si facessero bivi nel racconto, anche se dure, anche se a volte quasi irricevibili, e fotografie che si rendessero invece più utili alla costruzione dell'enorme puzzle chiamato vita.
Certamente la mia visione non è una visione canonica del quotidiano, né una che ambisce a raggiungere chissà quali stadi. Non mi interessa che mi dicano che le mie fotografie sono belle. Preferisco che lascino qualcosa. E vedendo il feedback della mostra esposta da Fotosciamanna, come anche quelle del libro, sfogliato anche da chi ha poca dimestichezza con la materia, credo di aver raggiunto il risultato: molti mi hanno chiesto come sto, vista la gravità di alcune immagini [ride], altri, invece, ci hanno visto della speranza. Insomma, uno vede quello che vuole vederci.



Un altro aspetto che mi ha colpito molto di "Beware of Dog" è la presenza di un'atemporalità di fondo che ci getta in una dimensione che vuole parlarci del presente, pur non essendoci elementi che ci riconducano ad un presente specifico. Questa è una cosa a cui miravi? O è venuta fuori in archivio?
Ma guarda. Tutte le immagini sono state scattate in città diverse e con strumenti vari (ho alternato digitale ed analogico). Questo perché ad interessarmi era il racconto dell'umanità nella sua interezza, piuttosto che la documentazione di una città o di un periodo storico preciso. Quindi si, l'atemporalità è un ingrediente fondamentale del progetto. Anche perché restituisce perfettamente un'idea in cui credo fermamente: quella che siamo tutti uguali, mossi dalle stesse emozioni e dagli stessi pensieri. E quindi non ho voluto nominare né città né paesi, nulla. Doveva venire fuori solo la socialità umana, il peso delle sensazioni.
La realtà ha bisogno di una narrazione, ma una narrazione che sia rispettosa della realtà, sennò diventa marketing - Fabio Trisorio

Mettere dodici anni di lavoro in un libro è un'impresa colossale. Ancor di più farlo nel contesto della fotografia di strada, dove spesso trovare un fil rouge è quasi impossibile, se non rischioso. Che tipo di struttura hai dato a "Beware of Dog"?
Avevo davvero tante fotografie in archivio. Inizialmente si era pensato di impostarlo come un reportage. Avevamo abbozzato con Giulia delle possibili sequenze ma abbiamo capito presto che non rispecchiavano completamente la visione che volevo dare del mio lavoro. La scelta è così ricaduta su una raccolta di impressioni, un libro in cui le fotografie dialogano, si, tra di loro; aprono un discorso, lo chiudono, come se fosse una musica con ritmo sincopato, senza però avere una struttura lineare come quella del reportage: ovvero un registro narrativo che ti porti dal punto A al punto B offrendoti poi una chiusura morale.
Le fotografie di "Beware of Dog" sono accoppiate; tra loro dialogano per un elemento, per una similitudine, per magari un taglio di luce simile. Quindi vedi persone, cani, gatti; il traffico e i negozi; le luci dei lampioni e i cunicoli delle gallerie. È praticamente una rappresentazione della vita. E come nella vita, tutto si trasforma. Nel libro abbiamo infatti optato per un editing dinamico e immagini di vario formato.
Ogni fotografia è una piccola goccia che va a comporre un piccolo pezzettino del puzzle. La cosa che cerco di raccontare, di dire, è che bisognerebbe allontanarsi dal guardare solo le immagini singole. Andrebbe visto il lavoro nella sua interezza, perché è nella interezza che si può scorgere il racconto completo: quello della vita.
Insieme al libro, è stata inaugurata una mostra da Fotosciamanna aperta fino al 28 Febbraio. Come cambia la gestione di un lavoro come "Beware of Dog" in un contesto espositivo?
Ovviamente quando fai una mostra devi fare delle scelte. E in questi casi farsi aiutare da qualcuno è quasi d'obbligo. Con Giulia abbiamo ragionato sulle immagini che fossero più di impatto. Soprattutto, lei mi ha indirizzato verso quelle che potevano essere stampate in grande formato, perché nel grande formato, mi ha spiegato, "si potevano cogliere meglio le linee guida di un lavoro molto più ampio". Mi ha subito convinto!
A me non piacciono le mostre dove ci sono le fotografie tutte incorniciate allo stesso modo. Volevo restituire il ritmo sincopato del libro anche nell'esposizione. E per fortuna ci siamo riusciti. Con la stampa di Sergio (Sergio Casella, proprietario di Fotosciamanna) e i consigli di Giulia siamo arrivati ad un risultato più che ottimale.

Dopo aver visto il mondo attraverso lo spirito di un cane senti ora di esserti trasformato definitivamente in lui? Oppure Fabio cambierà ancora forma?
Alla presentazione della mostra ho scherzato dicendo che tutto questo tempo passato ad adorare il cane come musa ispiratrice mi ha cambiato dentro. Ora non so più se sono un cane di fotografo o un fotografo cane [ride], lo lascio giudicare agli altri. A prescindere da tutto, mi sento ancora a mio agio nelle vesti di un Dog.









"Beware of Dog", 2024. Fotografie di © Fabio Trisorio
Chi è Fabio Trisorio?
Fabio Trisorio è nato il 5 marzo 1972 a Roma. Ha studiato fotografia? Certo. Finora ha fotografato ovunque e con qualsiasi mezzo, ha esposto, ha collaborato, ma è acqua passata e soprattutto è caduto tutto in prescrizione. Ama il silenzio dei fotografi e le famose parole povere, ma dette bene. Qui il suo Instagram.


Beware of Dog
Fotografie di Fabio Trisorio. Book Design di Giulia Pissagroia. 106 pagine. Brossurato. Costo 30 euro (chiedi a lui o ad ASAProject per l'acquisto).
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