Dopo tanti mesi di lunghe riflessioni e letture faticose torno finalmente nella calda ed accogliente dimensione della Newsletter per parlarti di libri fotografici, i più entusiasmanti e a portata di mano.
In settimana ho finito di leggere il saggio fotografico “Davanti al dolore degli altri” di Susan Sontag: un libriccino di circa 150 pagine, appena ristampato dalla casa editrice nottetempo, che cerca di metterci in guardia sul difficile tema della spettacolarizzazione della violenza tramite le immagini fotografiche.
Un libro che ho apprezzato, che mi ha fatto pensare e penare in alcuni punti. La scrittura dell’autrice è molto audace, pungente, e se hai avuto modo di leggere altro di suo, tipo il celeberrimo “Sulla fotografia”, saprai bene che non va per le lunghe e non si lascia andare, per niente, neanche sotto tortura, a facili sentimentalismi. Qui non è da meno.
Susan Sontag ci mette fin dalle prime pagine di fronte ad un dilemma morale. Partendo dalla letteratura di genere e dalla pittura ottocentesca, per poi arrivare alle grandi fotografie di reportage, ci chiede cosa le immagini di guerra ci trasmettono, se riteniamo il fenomeno una cosa inevitabile e se esiste un modo per abolirlo del tutto.
Una serie di quesiti importanti, che ci mettono subito in difficoltà, perché la sofferenza, se vista da lontano, in un’immagine fotografica scattata da un grande fotografo, e veicolata in un universo come quello dei media digitali ed analogici, non ci tocca, non ci stupisce come dovrebbe e non ci porta ad affrontare realmente il problema.
Molti inneggiano alla spettacolarizzazione della morte, del dolore, e tanti altri alle desensibilizzazione delle masse su questi argomenti. È un vero e proprio casino e la fotografia, in tutto ciò, crea più dissidi che legami. Vediamo solo quello che vogliamo vedere.
La guerra colpisce, graffia e destabilizza ma in un’immagine, composta bene e ricca di dettagli, sembra essere quasi appagante, eccitante come un omicidio cittadino da osservare con quel pudore tipico vittoriano che nasconde però, in segreto, un piacere morboso.
Già da qui si manifestano le prime avvisaglie di un argomento che non ci lascerà indifferenti e che ci porterà, nelle successive pagine, a metterci a confronto con alcune delle vicende storiche più complesse e frustranti.
Tra queste ci sono l’11 Settembre, i campi di concentramento degli Ebrei, il genocidio degli Armeni e la Guerra Civile spagnola. Tutti conflitti documentati fotograficamente, da ambe e due le parti, che ci inorridiscono, creano una memoria, spesso labile e faziosa, e che ci portano a chiederci il perché di tutta questa cattiveria (che non sia già intrinseca nell’uomo?).
Politica, arte e psicologia. Uscirne illesi sembra essere una vera e propria impresa e il proliferare sempre più accanito di tante immagini di questo genere sui telegiornali e le riviste non ci aiuta per niente.
“Abbasso i media e viva la verità. Non mostrateci queste cose perché poi i bambini crescono male”. Crediamo che sia tutto vero, tutto orribile, ma alla fine dei conti, è davvero colpa dei media, e soprattutto, cosa facciamo noi per risolvere queste situazioni?
Compatiamo chi ha perso dei propri cari e siamo i primi a battere ferro sui Social Networks quando un tema ci interessa. Crediamo che basti inorridirsi, scrivere un commento sotto il profilo di un giornale o distogliere lo sguardo per far scomparire la violenza. La guerra, se ancora non l’avessimo capito, se ne infischia di noi.
Scorrendo i capitoli facciamo sempre un piccolo passo in avanti verso la risoluzione del quesito principale e il tema della fotografia e della guerra, prima visto quasi come irrisolvibile, arriva finalmente ad un punto cruciale: la fotografia, se presa da sola, non porta al cambiamento, ma se veicolata nella giusta dose e nelle giuste sedi, non può che far valere il suo potere etico.
La fotografia insegna, crea solidi legami e può essere una delle pedine fondamentali per non dimenticare il passato e per scongiurare possibili altre atrocità. Se però non agiamo, non ci poniamo come pensatori esterni, eliminando tutto quello che può distrarci da un ragionamento oggettivo, non potremmo mai comprendere il motivo reale di questi eventi.
Susan Sontag prova a farci ritornare sui binari giusti anche se ammette, alla fine del libro, che solo chi affronta la guerra in prima persona, che siano soldati, civili o medici, può davvero assaporarne, nel bene e nel male, ogni sua minima sfumatura.
Come sempre, il nemico/amico di tutta questa storia, è sempre l’uomo, noi stessi. Sta a noi decidere da che parte stare e come interpretare le informazioni che ci arrivano. La fotografia, per quanto accusata, vessata e rimbrottata, rimane uno strumento, privo di vita e di ragione.
In “Davanti al dolore degli altri” ne abbiamo una dimostrazione senza filtri e questo, per chi ancora vive nel mondo della fate, fatto di dolcetti e pacche sulle spalle, fa male, molto male.
Alle immagini si rimprovera di offrire la possibilità di guardare la sofferenza da lontano, come se ci fosse qualche altro modo di farlo. Ma anche guardare da vicino — senza la mediazione di un’immagine — resta sempre e soltanto guardare.
~ Susan Sontag