Ciao Rover,
esistono storie che non esistono: storie belle, affascinanti, per cui valga la pena combattere o infrangere la legge; storie che ci vengono raccontate a voce o scritte nei libri; storie, di cui la fotografia, se ne ciba ogni giorno.
Di storie ne ho ascoltate tante nella mia vita. Alcune mi hanno cambiato, permettendomi di vedere le cose da un altro punto di vista, altre mi hanno profondamente incuriosito, tanto da voler capire, anche a fronte di ore e ore di ascolto imperterrito, dove volessero andare a parare.
La stessa curiosità mi ha spinto in settimana a leggere, seppur in tempi più brevi, "Voglio proprio vedere", di Michele Smargiassi: un saggio/raccolta/fiction edito Contrasto che ha sfruttato perfettamente quell'avidità di scoperta, insita in ogni lettore, messo di fronte alla ghiotta opportunità di capire cosa frulli in testa dei propri beniamini.
Normalmente siamo molto avveduti nella scelta dei volumi fotografici da leggere e conservare nelle nostre librerie. Vediamo grandi nomi, che hanno scritto grandi cose, e pensiamo che tutto sia tremendamente difficile da digerire.
Scegliere un saggio, o una monografia, non è come scegliere un romanzo o una raccolta di racconti: rimanere concentrati per lungo periodo sopra le pagine, soprattutto per chi dedica pochi minuti della propria giornata alla lettura, è molto difficile, quasi faticoso, mentalmente parlando.
Michele ha scritto numerosi libri che richiedono, da parte del lettore, una grande partecipazione intellettuale ed emotiva - vedi "Un'autentica bugia" - ma con "Voglio proprio vedere", come anche in "Sorridere", ha fatto una scelta alquanto ardita: metterci di fronte ad un volume più conviviale, leggero e sagace rimanendo comunque, in maniera sorprendente, dentro il campo della fotografia.
Ma di cosa parla il libro?
In "Voglio proprio vedere" Michele Smargiassi immagina di viaggiare nel tempo per effettuare, per conto di un giornale italiano, una serie di interviste ad alcuni dei più importanti e controversi fotografi di fama internazionale.
Michele non è nuovo nel toccare argomenti o personalità che hanno contraddistinto nel tempo il mondo della fotografia.
Lo ha sempre fatto in maniera critica, personale e, a tratti, tagliante. Non a caso oggi la sua penna, dal mio punto di vista, è una di quelle più provocatorie - positivamente parlando - ed attente del sistema critico italiano.
In questo volume, però, più che del Michele professionista c'è molto del Michele fanciullino, quello che avrebbe dato di tutto per trovarsi di fronte a queste personalità e quello che spesso è nascosto tra le righe dei suoi articoli.
E questo lo percepiamo da diversi fattori.
Il suo modo di fare è quasi nervoso, emotivo: si lascia andare agli impulsi più ingenui ponendo spesso domande che nascono più dalla sua curiosità, che dalla professionalità del suo personaggio.
Le risposte dei suoi interlocutori, frutto di una fervida immaginazione, sono altresì sentite, vive: non si parla mai di attrezzature, di questioni tecniche, ma solo di esperienze e pensieri: di vita, in maniera collaterale.
Quello che ne viene fuori sono dei dialoghi accesi in cui autori di cui abbiamo sentito parlare in ogni dove si raccontano, politicamente, artisticamente ed umanamente, attraverso un filtro ironico e, spesso, molto diretto.
Michele si è servito di diversi materiali, da biografie d'autore fino a spezzoni di interviste, per scandagliare dentro le anime di queste persone e carpirne, come farebbe un bravo psicologo, le intenzioni, gli umori e le personalità.
Ogni racconto, ogni storia, è costruita per essere plausibile, vera.
I suoi dialoghi, ricchi di intesa e dai toni insolenti, come solo i bravi giornalisti sanno fare, ci lasciano intravedere dei piccoli spiragli che toccano il culturale, ma anche l'umano: briciole essenziali al nostro sostentamento durante tutto l'arco del racconto.
Michele sa, da buon giornalista venuto dal futuro, di sapere più di quello che dovrebbe, anche più degli stessi protagonisti, e le sue domande, sempre mirate ad argomenti precisi, e mosse dalla necessità di ricevere risposte esaurienti, colpiscono, ambiguamente e fortemente, le menti di queste personalità.
Le risposte, però, non sono quelle che ci aspettiamo. Questi artisti, lungi dall'essere acclamati e rispettati ancora oggi, hanno vissuto in maniera complessa il loro rapporto con la fotografia.
Alcuni l'hanno abbandonata, durante il loro percorso, per cause di forze maggiori - vedi Tina Modotti o Eugene Smith - altri invece ne hanno fatto uno scudo, per vivere una vita che non avrebbero mai potuto vivere - vedi Vivian Maier.
Loro - e spesso ce ne dimentichiamo - sono stati umani, cittadini della loro epoca, e il fotografare, come anche l'essere testimoni del proprio tempo, era più che una semplice scelta, ma una necessità mossa da istinti spesso inspiegabili.
Di risposte certe, quindi, non ce ne sono, ma la sensazione che abbiamo, ad ogni fine capitolo, è di aver ricevuto numerosi spunti per riflettere, per capire meglio il perché, persone potenzialmente abili a ricoprire qualsiasi ruolo nel mondo, abbiano scelto la fotografia, come mezzo di espressione personale.
Un omaggio a questi autori, ma anche al giornalismo. Sei interviste che riescono nel difficile compito di tenerci incollati alle pagine e a farci conoscere, nel mentre, una parte importante della storia di quest'arte.
Se non è magia questa non so che altro dirti.
Una scrittura riuscitissima e che ti consiglio caldamente.
A tutti ho posto, in forme diverse, la stessa domanda: perché fotografate? Perché è giusto, bello, necessario, utile fotografare? O magari non lo è? Da ciascuno ho avuto una risposta diversa. Perché la fotografia non esiste: esistono le fotografie, ognuna diversa dall’altra. E alla fin fine, penso che tutte le fotografie condividano una medesima, forte, semplice spinta antropologica, morale, umana: la voglia di vedere il mondo e di condividere quella visione” - Michele Smargiassi.