Entro in punta di piedi, guardandomi intorno, con attenzione, in quello che è un palcoscenico particolarmente ricco di stimoli e di mistero, un enorme album della nostra storia umana che non lascia spazio alla ragione, ma solo alla magia.

L'universo fotografico creato da Barbara Di Maio è affascinante, diverso da tutto quello visto finora. Da anni lei si immerge in situazioni senza tempo, facendosi trasportare dal vociare dei devoti e dai suoni atavici di strumenti a tamburo.

La sua, mi dice, "più che una passione, è una missione vera e propria, un patto stretto con un osservatore sconosciuto ai fini di mantenere salda la memoria della nostra umanità, spesso ignorata, tante volte messa in secondo piano".

Mi accingo allora a saperne di più; a capire, come la responsabilità del racconto possa portare una persona a girare tutta Italia, pur di mettere nero su bianco, pellicola su pellicola, la storia di pochi, e renderla di tutti.

Incontro Barbara online, in una stanza virtuale senza infamia e senza lode. Al momento dell'intervista non è al massimo delle energie, un brutto raffreddore l'ha tenuta lontana dalle sue passioni. Ci tiene però a dirmi, e quindi a dirci, «che quando si parla di fotografia, non c'è malanno che tenga». Un buon inizio, per quello che è stato un viaggio dentro la mente e il cuore di una grande autrice.

Intervista
Ti ricordi il primo momento con una macchina fotografica in mano?

Certo che si. Ero piccola, una ragazzina. Fu mio padre a farmi avvicinare a questo mondo. Fu uno dei primi ad intuire la mia passione nei confronti delle arti visive. Diciamo che capirlo non era poi tanto un mistero. Gi rubavo spesso le fotocamere per scattare e vedere come il mondo apparisse attraverso un mirino. Da lì, al regalo della mia prima macchina fotografica, un Olympus Trip 35, non passò molto tempo. Anche lui fotografava di tanto in tanto. Era quindi una cosa di famiglia.

Immagino che per te sia stata quella una fase molto sperimentale

Si, era un contesto prettamente amatoriale. Fotografavo di tutto, dal paesaggio ai visi dei miei genitori. Mi piaceva molto fotografare e sentivo che la fotografia era già allora speciale. Poi arriva l'età adulta e devi iniziare a scegliere, a capire cosa vuoi fare del tuo futuro. Mi ero ripromessa di continuare a coltivare questa mia passione, di farlo bene, ma non prima di prendere una laurea. Così, finiti gli studi linguistici (faccio l'interprete), mi sono trasferita in America, per studiare fotografia al centro internazionale di New York ICP.

Lì ho avuto modo di entrare a contatto con la realtà americana, estremamente attenta alla parte tecnica e al raggiungimento di un certo risultato. È stata una scuola importante. Ti dirò, quell'esperienza mi ha permesso di capire nel dettaglio come funzionano gli strumenti e, soprattutto, la luce. Sono nozioni che mi porto ancora oggi appresso e che mi tornano utili quando realizzo le mie fotografie.

Da lì poi ritorni in Italia, per dedicarti alla fotografia documentaria. Il passaggio è stato immediato? O c'è stato un evento che ti ha spinto a farlo?

Ritornata in Italia avevo solo vagamente in testa cosa volessi fare e raccontare. Volevo sicuramente abbandonare quella sfera più professionale di New York - fatta di moda, still life e ritratto - per dedicarmi a qualcosa di mio, che mettesse al centro le mie passioni e che fosse importante a livello sociale e storico.

Arrivo a quei temi, quelli oggi di mio principale interesse, quasi per caso. Un giorno, beccai in una bancarella della mia città un libro dell'antropologo Apolito e della fotografa Anna Bella Rossi. Sarà stato più o meno nel 2007 o 2008.

Sfogliandolo dico «oddio, che meraviglia!», c'erano tutti questi carnevali storici antichi, tutte queste feste popolari dell'Irpinia, che è una zona della Campania (io sono campana) e quindi mi sono subito innamorata di queste storie. È stato un colpo di fulmine. Da quel momento, come se fosse un segno del destino, ho deciso di dedicarmi solo e unicamente a questo tipo di ricerca: la documentazione delle tradizioni popolari e religiose italiane.

Fotografia di © Barbara Di Maio

Quindi, per così dire, non è stata una cosa consequenziale al mio ritorno in Italia, ma un'epifania che ha colpito e stravolto la mia vita. Forse era già dentro di me, non so, dovevo solo capirlo e dare ascolto a quella mia voce interiore.

Il mio desiderio più grande, Gianluca, a prescindere dal lavoro ufficiale, di fotografa o di interprete che svolgo ancora, è quello di lasciare una testimonianza. Quindi io immagino sempre di lasciare un ricordo di ciò che vedo. Una sorta di missione personale, una cosa che farei a prescindere dalle commissioni.

Credo che sia importante, a maggior ragione di questi tempi, conservare la memoria delle tradizioni del patrimonio immateriale in Italia, di cui non tutti sono a conoscenza e dietro le quali si cela un grande studio antico. Io ho trovato che la fotografia sia un buon modo per farlo e così continuo imperterrita nel mio scopo.

Immagino che questo genere di fotografia richieda un grande studio

Direi proprio di si. Documentare bene le tradizioni vuol dire fare prima di tutto una ricerca, c'è dello studio che precede gli scatti e anche il desiderio di andare in un posto piuttosto che in un altro. Io, ad esempio, leggo molto, per documentarmi, seguo l'evento da spettatrice, se non lo conosco, e dopo ritorno per fotografarlo.

Preferisco personalmente tornare sempre nei posti per più di una volta, perché ho capito che la prima è di conoscenza, e le altre sono di produzione. Le "vere fotografie", a parer mio, vengono con gli anni, nello stesso posto, e non la prima volta. La prima volta è veramente una conoscenza, tutta una scoperta.

Come scegli le tue storie da raccontare?

Ma guarda, normalmente scelgo le mie storie seguendo le mie sensazioni. Se mi ispirano, mi emozionano e mi danno adrenalina, perché magari le ho già vissute senza macchina fotografica, è un buon segno, vuol dire che vale la pena seguirle.

Per esempio, dodici anni fa, sempre così per caso, fui invitata da un amico ad uno spettacolo circense. Lì, in quegli ambienti, è scattata una scintilla: sono riaffiorati tanti ricordi d'infanzia ed è nato l'interesse nell'approfondire il tema del circo.

Quell'amore si è trasformato presto in un progetto fotografico, che mi ha tenuta incollata alla vita circense per circa dodici anni. Ero interessata, nel mio piccolo, a mettere in evidenza quella semplicità tipica di questi luoghi, un mondo fatto di colori, umanità, maschere e di una vita itinerante, a volte molto povera.

Da qui vedi e riscopri certi valori che a me piace tanto rivalutare e raccontare, quindi mi ci sono trovata subito a mio agio.

Fotografia di © Barbara Di Maio

Non a caso, molte altre delle mie immagini, sono pregne di queste caratteristiche.

Mi piace rapportarmi con le persone semplici, soprattutto con le donne che hanno ancora un ruolo ancestrale all'interno delle comunità più lontane. Spesso mi ritrovo a vagare in paesini incontaminati e non toccati dalla modernità, proprio perché ho bisogno di entrare, di conoscere e di vivere una semplicità che si è persa da tempo, sia nei valori che nella modernità dei nostri contesti urbani.

E poi ci sono le maschere, quelle dei carnevali storici. Mi piace fotografarle. Manifestano la loro appartenenza ad un mondo lontano, misterioso, affascinante. Insieme alle processioni religiose sono come il trascendere di una realtà che viaggia parallela alla nostra. Esistono, ma solo in ambienti e tempi prestabiliti. Questo non fa che renderli ancor più interessanti e preziosi per la nostra cultura.

Mi chiedo come tu riesca a gestire tutto quel caos che gira intorno a queste manifestazioni. Persone, fotografi, schiamazzi. Io uscirei pazzo

Dipende moltissimo dall'evento. Molti di questi sono fuori controllo, sei costretto a muoverti velocemente e ad aguzzare la vista, per arrivare prima di tutti. Per questo è importante ritagliarti subito il tuo spazio, altrimenti fotografie non ne fai.

Normalmente cerco di osservare e porre le mie attenzioni su istanti, visi e momenti precisi, entrandoci in punta di piedi. Oltre a scattare situazioni più dinamiche, mi capita molto spesso di fermare persone durante una processione per scattargli dei ritratti. Trovo che completino il reportage, dandogli una nota molto personale.

È appagante poter creare un legame visivo con chi stai fotografando. Sento subito a pelle se quel viso o quella persona sono speciali. Provo un brivido quando succede. I miei soggetti mi concedono le loro attenzioni e io cerco di ripagarli a dovere, rendendo indimenticabile, con una fotografia, quell'incontro senza tempo.

È una bella fatica, guarda. Per me, da pigra che sono, percorrere a piedi così tanti chilometri, o essere sul posto ore ed ore prima per trovare lo spazio giusto, potrebbe essere un problema, ma è talmente grande l'entusiasmo e l'amore per quello che faccio che non mi accorgo di niente. Sono totalmente concentrata.

Nel tuo lavoro arriva prima il documento o la tua personalità?

Tento di far conciliare le due cose. Nel mio lavoro seguo il cuore, la mia visione della fotografia e il rispetto per le persone che ho davanti. Diciamo che si susseguono a rotta di collo, senza pianificazioni, fotografie descrittive e intime.

È come se gli scatti intimi confluissero in quelli descrittivi, rafforzandosi a vicenda. Gli uni non potrebbe esistere senza gli altri. Ragionano per continuità di senso.

Devo però ammettere che prediligo sicuramente le immagini più intime, rispetto a quelle giornalistiche. Trovo quest'ultime un appendice al lavoro principale, che per me è un altro, ovvero raccontare l'evento da un punto di vista più umano e sociale.

Non a caso faccio più fatica a scattare quando sono costretta a farlo - nel caso di una commissione - o se l'evento non mi affascina abbastanza. La parte emozionale è importante. Devo sentirmi parte di quella cosa per rendere al meglio.

Di immagini di questi eventi ne ho viste tante e trovo sempre che le migliori siano quelle scattate ai margini, dove nessuno guarda. Che ne pensi?

Mi trovi d'accordo. Il mio maestro Ernesto Bazan (che voglio citare, perché mi ha spronato a mettere tutta me stessa nel mio lavoro) me lo diceva spesso, alla fin fine, chi scatta in questi contesti, realizza fotografie molto simili tra di loro.

Questo perché ci si concentra troppo su quello che sta al centro, più che su quello che gli sta intorno, il che non vuol dire non fotografare la processione nella sua interezza, ma di dare valore sia al macro evento che al micro, entrambi potenti.

Quel micro puoi trovarlo ovunque, in un backstage, in uno sguardo di una signora, una tenda, un dettaglio, una croce a terra, non lo sappiamo. Devi essere sempre pronto a cogliere questi segnali e a farne incetta, ai fini di un buon racconto.

Fotografia di © Barbara Di Maio

Da fotografa mi pongo spesso questo quesito: sto davvero seguendo la mia visione personale o il gusto del pubblico? Credo che non bisogna compiacere troppo l'osservatore, ricercando una fotografia molto lontana da quello che siamo veramente, o estremizzare una visione raccontando cose che non esistono.

Ci deve essere un equilibrio in quello che fai. Muoverti come un cecchino [ride] per cogliere l'attimo quando si presenta e, in altre occasioni, diventare un saggio eremita, per ragionare su tutto quello che magari risulta essere più noioso da catturare ed osservare, ma che è importante per dare un contesto alla tua storia.

C'è una storia che più di tutte ti ha strappato il cuore?

Si e anche questa è nata davvero per caso. Mi trovavo ad accompagnare un amico in un ospedale psichiatrico. Doveva realizzare dei ritratti ai pazienti per poi ricavarci sopra un calendario. Entrata lì ho percepito subito l'urgenza di fermarmi, guardare con attenzione come quelle persone, imprigionate in corpi e menti ormai scollegate dal tempo e dallo spazio, viveva le sue lunghe giornate.

Ho aspettato, prima di prendere la fotocamera in mano. Non volevo che le emozioni mi spingessero a varcare con violenza quel fragile ponte che si era creato tra di noi. In questi casi il rispetto per il soggetto deve stare al primo posto. Sono state infatti più le fotografie non fatte per etica che quelle che ho scattato. Quelle che ho scelto di fare, pochissime, ma fondamentali per me, le ho riunite in una serie chiamata Damnatio Memoriae. È un progetto a cui tengo molto e a cui spesso ritorno con la mente, quando ripenso ai miei valori.

Per il resto provo affetto per tutte le mie fotografie. Sono tanti tasselli, tante piccole emozioni che mi porto nel cuore. Tutte, in fin dei conti, sono importanti.

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Il pubblico, a tuo parere, riconosce l'importanza del documento?

Spesso da fuori non si percepisce l'entità e il valore di alcune di queste manifestazioni. Le pensiamo vecchie, antiquate, inutili. Tutto cambia, invece, quando siamo lì, a viverle in prima persona. È un'emozione indescrivibile.

Sicuramente la larga presenza di fotografi in quei contesti può trarre in inganno, facendoci pensare che non valga la pena investire del tempo nella documentazione di queste manifestazioni. In realtà è proprio il contrario. Molte di quelle immagini scattate dal pubblico o dai professionisti non vengono conservate a dovere, mettendo così a rischio la memoria del nostro paese. Il che è un peccato.

La mia priorità, come ti dicevo poc'anzi, è proprio quella di non dimenticare, di conservare la testimonianza di questi eventi e di queste persone mettendole a disposizione di tutti. Mi ripeto spesso che quello che fotografo è sia per me che per gli altri. La fotografia è condivisione, riconoscenza. Se non ci pensiamo noi fotografi a preservare la nostra storia, chi allora? C'è bisogno di ogni contributo.

E poi, in tutto ciò, c'è la Street Photography, il tuo secondo amore

Si! Mi diverto molto a scattare fotografie di strada. Quell'imprevedibilità del momento, unita alla faccenda del dover anticipare e catturare ogni mossa dei soggetti, studiando al contempo dove si muovono, il luogo, e la luce che li colpisce, naturale od artificiale che sia, è una bella sfida, una palestra incredibile.

Rispetto al reportage, dove comunque mi sento me stessa, nella Street Photography ho l'occasione di sperimentare altre cifre stilistiche. Qui viene fuori molta della mia personalità e mi lascio andare a situazioni estremamente ironiche, colorate e surreali. Sono per me due facce della stessa medaglia. Le amo entrambi.

Nella Street, ho notato, usi maggiormente il colore. È una scelta aprioristica?

Ti direi di no. L'uso o meno del colore è un qualcosa che penso sul momento e che dipende tantissimo dalle situazioni. Ci sono volte che lo trovo di fondamentale importanza per quell'immagine ed altre meno. Mi tengo libera in tal senso.

In ultimo, cosa credi che abbia fatto la differenza nel tuo percorso?

Credo che la conoscenza, la curiosità e l'impegno profuso nel mio lavoro mi abbiano aiutato a raggiungere certi risultati. Fare fotografia è un mestiere difficile, ma anche la cosa più bella del mondo. Mi mette gioia. Anima le mie giornate.

Sacrificio, passione, determinazione, costanza. Devi studiare. Devi fare pratica, altrimenti è inutile, non si va molto lontano. Ai fotografi emergenti dico, sceglietevi qualcosa che vi faccia alzare presto la mattina (come dice Crepet), qualcosa che vi sta a cuore e per cui valga la pena combattere, sacrificarsi. Diventa tutto più facile se ami quello che fai e se lo trovi importante per gli altri.

Poi, col tempo, i risultati arrivano. Non dico di entrare nell'olimpo dei grandi della fotografia, ma che con sano impegno possiamo ritagliarci tutti il nostro spazio, arrivare al cuore delle persone. Io ho investito tante energie e sono felice, non mi pento di nulla. Continuerò il mio percorso, finché avrò occhi per guardare.

Chi è Barbara Di Maio?

Barbara Di Maio è una fotografa di origini campane. Da molti anni si dedica alla produzione di lavori fotografici di natura antropologica e sociale. Indaga e documenta, con personalità, il folclore, le tradizioni e le culture popolari della sua terra (e del resto d'Italia). Puoi vedere altro di lei sul su Instagram.

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