In vita mia sono rimasto davvero poche volte ad osservare per lungo tempo fotografie di paesaggio urbano. È un genere diventato parecchio metodico, in cui spesso il fotografo tenta di rattoppare le sue insicurezze narrative facendosi sostegno su quelle che sono le strutture, le luci e i colori di una città.
A maggior ragione, mi sento ancor meno coinvolto, quando ne scorgo qualcuna scattata in America, un luogo diventato fotograficamente talmente piatto da risultare, a tratti, respingente, se non addirittura noioso.
In un paesaggio che si rispetti la passione per l'esplorazione urbana dovrebbe essere accompagnata da una ricerca concettuale, storica e linguistica dello spazio. Non a caso, gli autori e le autrici che apprezzo di più, volti della fotografia di paesaggio passata e contemporanea, erano spinti, e lo sono ancora, dalla ricerca di un ambiente che possa comunicare qualcosa, ancor prima di rubare le attenzioni.
Walker Evans prima. William Eggleston dopo. Tutti, a loro modo, cercavano di andare oltre alla struttura fisica di un luogo, per tracciarne da lì nuovi itinerari e trovare, attraverso essi, modi inusuali di guardare il mondo, e quindi noi stessi.
Una ricerca intellettuale ed artistica se vogliamo, ma soprattutto una ricerca che coinvolge le parti più intime del nostro essere spettatori del mondo: estranei prestati ad un ruolo di passaggio in una colossale scenografia in cui, il nostro apporto, apparentemente irrilevante, sta pian piano corrompendo ogni cosa.
Clima, politica, cultura e società. Tutto si manifesta nel paesaggio e tutto, per chi sa guardare, è lì pronto per essere confutato, sondato, capito. L'unico nemico, se vogliamo, sono il tempo e la noia, che corrono inesorabilmente più forti di noi.
"Good Morning, America" di Mark Power è, in tal senso, uno di quei lavori che rientrano perfettamente in questo quadretto: un racconto completo, ma non conclusivo, di quello che è il paesaggio urbano americano, partendo dalle lontanissime lande del North Dakota fino ad arrivare all'estremo opposto.
Distaccate, direbbe qualcuno, profondamente sincere, direbbe un altro. Le immagini che riempiono i cinque volumi, ancora in corso, di "Good Morning, America" sono un colpo inferto dritto alla nostra immaginazione.
Fin da bambini abbiamo fantasticato sull'America e sui suoi incredibili paesaggi. Il cinema western e quello classico, passando poi per i fumetti, ci hanno abituato presto a fare i conti con ampie visioni naturali e strutture gigantesche. Nella nostra piccola testolina da sognatori, ci siamo immaginati più volte a percorrere quelle strade in mezzo al nulla o a passeggiare, sotto i grattacieli, azzannando, di tanto in tanto, un hot dog.
L'America che ci siamo sognati, e quella che molti dei nostri avi hanno poi reso la loro casa, è un'America quasi fiabesca, quella delle mille opportunità, quella in cui, ogni cosa, può diventare realtà, solo se sei disposto a crederci.
Quella di Mark, invece, a prima vista, è un'America di cui non abbiamo memoria.
Il lavoro, iniziato nel 2012 in concomitanza con le rielezioni di Barack Obama, ci racconta un paese costantemente in evoluzione, un luogo desolato in cui le sovrastrutture sociali, politiche e culturali, tenute in piedi dai prodotti commerciali e dalle apparenze, cedono lentamente il passo davanti alla realtà dei fatti.
Mark, inglese di nascita, ha fatto dell'America il modello a cui ispirarsi. Fotografia, cinema e letteratura di quel paese hanno da sempre fatto parte della sua vita, attaccandosi, come sticker adesivi, nel pacchetto della sua personalità.
Neanche lui, abituato a quelle visioni, poteva immaginarsi che quel viaggio nel paese dei sogni, da tempo desiderato e ricercato, potesse trasformarsi in un vagabondaggio nudo e crudo in un luogo diviso, discriminato, impoverito.
Tutto si manifesta nel paesaggio, basta solo saper guardare - Mark Power
Le fotografie di "Good Morning, America" non seguono un tema preciso.
Mark Power si fa trasportare dalle sensazioni. Si muove a piedi, con piccoli spostamenti, per sondare attentamente gli angoli e le situazioni più giuste. Di una parte dell'America sa ben poco e più volte, gli abitanti del luogo, si sono chiesti cosa mai un fotografo inglese potesse farci in quei posti dimenticati da Dio.
Lentamente il nostro sguardo si sposta da un dettaglio ad un altro, scoprendo, al di là di quelle strutture fatiscenti, e agli oggetti rivestiti di simbolismi o arcaismi del caso, la fragile anima di un paese in eterna ricostruzione.
Locali in chiusura. Palazzi avvolti dalla nebbia. Foreste devastate dagli incendi.
Fa strano. Guardando le fotografie del primo volume, l'opera pilota per certi versi, non posso che rimanere appagato nell'osservare che ogni cosa, fotograficamente parlando, è a suo posto, come se una pace interiore, proveniente da un mondo sconosciuto, mi pervadesse totalmente la mente. Mark ha un occhio davvero allenato, pregevole, brillante, e riesce a trovare in ogni luogo una bellezza intrinseca che si manifesta solamente al momento dello scatto.
La sua America è sospesa, in attesa di qualcosa. Il tempo sembra essersi cristallizzato attorno a lui, ma i luoghi, silenziosi e sul confine del disastro, no: si concedono ancora per alcuni e fugaci istanti ad un osservatore venuto da lontano.
Quella di Mark Power è una sentita e continua esplorazione di un ambiente complesso e frastagliato. Ci conferma il come, uno tra i paesi più moderni del mondo, viva e sopravviva seguendo logiche e velocità diverse da regione a regione.
Non serve un indovino per capirlo, basta guardare le fotografie, frutto di un viaggio durato dieci anni in venti stati differenti dell'America, contrassegnati dal Covid, dal cambiamento climatico e dal governo di Donald Trump. Tutte, come echi di un passato inglorioso, strabordano, da un piatto più piccolo del suo contenuto.
Scenari surreali e posticci che sembrano quinte teatrali, o sogni ad occhi aperti, si sovrappongono a dettagli ed oggetti che trasudano America da tutti i pori.
Esiste, se vogliamo, in questo quadro deprimente, un fascino intramontabile, quello di un paese che pur arrancando sotto i colpi delle ingiustizie e delle diseguaglianze sociali, riesce ancora a trasmetterci un messaggio di speranza, una luce in fondo al tunnel a cui tutti possiamo tendere. Quell'aria ai lati delle strutture, concessa dal fotografo nelle sue inquadrature, rappresenta infatti un'apertura verso il dialogo, verso l'inizio di una connessione intima con chi ha ancora a cuore il futuro e il presente di quei luoghi, segni di un'appartenenza stretta alla storia e alla cultura di un intero paese.
Qui, in sottofondo, si palesa un grande rischio, quello che nel rappresentare quello che è, senza prendere posizione alcuna, possa alimentarsi una proiezione di un'America che si guarda da sola e che si lascia passare addosso ogni qualsivoglia preoccupazione o problema perché ormai parte della sua stessa natura.
E così che quel distacco che tenta ardentemente il fotografo di rispettare, vuoi per una questione tecnica o concettuale, o vuoi per la sua estraneità da inglese venuto da Leicester, assume maggior senso, creando in questi agglomerati di elementi un cortocircuito tra la realtà dei fatti ed un evidente tentativo romantico di prendersi cura del suo giocattolo più bello: l'America, luogo in cui tutte le storie immaginate e narrate dai piccoli sognatori hanno preso piede.
"Good Morning, America" non offre così risposte certe e non tenta di fare il moralista di turno. Continua invece, ancora oggi, a porre numerose domande. Una di queste, al fronte di questa lunga ed estenuante ricerca, si fa largo tra la folla:
Che ne sarà dell'America dei sogni nei prossimi anni a venire?
Chi è Mark Power?
Mark Power è un fotografo di origini inglesi. Dal 2007 fa parte della Magnum Photos, storica agenzia di fotogiornalismo. Il suo stile è asciutto, meticoloso. Racconta il contemporaneo attraverso i luoghi e gli oggetti dell'uomo. Trovi il resto dei suoi lavori sul suo sito ufficiale.
Fonti utilizzate:
- Mark Power: Good Morning, America (magnumphotos.com)
- Mark Power, Sito Ufficiale
- Mark Power, intervista (creativereview.co.uk)
- Good Morning, America - Recensione (phroomplatform.com)