Siamo tutti cercatori di bellezza. Spesso essa si presenta a noi attraverso una forma indescrivibile, quasi abbagliante, come una di quelle lune che guardi da lontano sperando di poterla prima o poi raggiungere; altre volte invece dobbiamo cercarla, tra le macerie di un palazzo o il viso di una bambina sorridente.

Per Michael Christopher Brown, fotografo della Magnum Photos, di recente in mostra a Catania nel pittoresco ambiente delle Ciminiere, la bellezza è riscontrabile anche lì dove la speranza sembra ormai essere perduta per sempre.

Ho avuto la fortuna di poter andare a visitare la sua I/Reporter e sono rimasto piacevolmente colpito dalla qualità, e dalla quantità, delle immagini che riempiono un’unica e ricca sala.

La sala espositiva che accoglie la I/Reporter di Michael Christopher Brown (Catania)

Michael Christopher Brown ha girato il mondo, documentando i peggiori conflitti della storia dell’uomo e immortalando l’energia di popoli lontani e spesso sconosciuti.

Le sue fotografie vibrano, hanno un’aurea, e in quella sala ristretta si ha la percezione di sentirle parlare, non stanno ferme, ma cantano all’unisono, come un coro, non prevaricandosi mai e lasciando che la melodia scorra e raggiunga immediatamente il nostro cuore.

La mostra, che conta all’incirca un 200 immagini di diversa dimensione, è un vero e proprio concerto, in cui ogni pezzo di realtà, diviso in sezioni e raggruppato per luogo, costruisce un animato mosaico di visi, colori e momenti.

A guardarla da fuori, mentre si percorre il circuito che porta al centro dell’esposizione, si percepiscono già le voci e i suoni di culture e persone che non sono simili, ma che sai che si incontreranno a breve, decidendo armoniosamente di convivere insieme in questa unica e rara manifestazione di vita e di morte: per un solo istante non c’è divisione, ma unione di intenti.

Ad aprire il sipario, su questa vera e propria rappresentazione dell’umanità intera, è un pannello, grande e sontuoso, che riporta la frase “Un mondo migliore è possibile”. Una frase che sembra di quelle fatte, che abbelliscono sterilmente i muri di una chiesa o di un oratorio, e che non ti lasciano via niente.

In realtà, nella visione delle cose di Brown, è un messaggio di speranza e di ottimismo: l’uomo può cambiare ma serve tempo e determinazione.

L’emozione ti assale subito e guardando quelle fotografie che accompagnano questa citazione ti chiedi cosa tu possa fare per migliorare il mondo e come raggiungere quella bellezza anelata da lui e da tutti noi.

Ho apprezzato molto la mancanza di un’introduzione scritta alle opere esposte. L’unico appiglio alla realtà, se mai dovesse esserci utile, è un nome, quello della zona in cui sono state catturate queste espressioni di vita. Basta solo la loro “pesante” ed “ingombrante” presenza a lambirci e a scuoterci di dovere. Il resto è solo pane per intellettualoidi e mestieranti.

Girando nella sala ho potuto constatare il talento puro di questo autore, ingiustamente messo da parte da molti, ed ignorato, solo per la sua scelta di voler “fare il mestiere del fotografo di reportage” con un iPhone.

Lo strumento è importante, ma l’occhio e la sensibilità lo sono di più. Le sue inquadrature, mai banali e ricche di significato, sono meticolosamente studiate per narrarci la storia dei suoi soggetti, spesso molto vicini al suo obiettivo, e quella dell’ambiente che li circonda.

I visi in primo piano hanno un peso, ma lo hanno anche gli oggetti e i colori che adornano lo sfondo e che accolgono i protagonisti delle sue fotografie in caldi, o freddi, abbracci. Tutto sembra essere al posto giusto e ogni frammento, anche quando coraggiosamente composto per creare un cortocircuito visivo, ci rilascia una sensazione di pace e di armonia.

Se non fossimo talmente ossessionati dalle macchine e da come le fotografie vengono realizzate, crederemmo facilmente che queste scene siano state catturate con una fotocamera da migliaia di euro, di quelle con nomi strani e con tanti numerini appresso. Invece è un semplice iPhone — e forse è anche questo a dargli un valore in più.

I/Reporter. © Michael Christopher Brown

C’è tanta bellezza, ma anche tanto dolore. Non posso nasconderti che esiste una certa tensione crescente passando da un pannello all’altro. Un climax visivo, che porta il nostro sguardo da una coppia che amoreggia sul lungo mare cubano, per poi trascinarlo sul volto di un soldato appena decapitato. Pochi passi, ma molto duri e significativi.

Alcune immagini di Brown sono molto forti e crude, non per stomaci deboli. Lui è un inviato di guerra e spesso il suo occhio ha dovuto soffermarsi su corpi mutilati e su persone trivellate dai colpi di mitragliatore. Ma anche lì, la sensibilità e il talento compositivo di questo autore, ci guidano e ci permettono di osservare queste scene con maggior coscienza e, forse, meno paura.

Siamo ormai troppo abituati al confronto con la morte e con la sua rappresentazione. Vediamo gli occhi spalancati di un uomo che ha appena perso la vita dall’altra parte del mondo e non proviamo compassione, perché queste realtà ci sembrano lontane e fin troppo trascurabili.

Le abbiamo viste in un film, nei telegiornali e in qualche Serie TV di Netflix. Siamo totalmente insensibili al tema che rivederle in fotografia non ci fa nè caldo nè freddo. Per citare la Sontag, siamo entrati in quel tunnel della fascinazione del dolore ed uscirne, di questi tempi, è sempre più difficile.

Il lavoro di Michael Christopher Brown, come quello di tanti altri fotoreporter e giornalisti, ci ricorda che siamo tutti uomini, tutti simili, e che spesso le nostre battaglie cambiano solo nome, lingue, ma mantengono le stesse finalità e le stesse ideologie.

Soffriamo tutti, in forme e tempi differenti, e questo non può più rimanere un segreto o merce da scambio. C’è bisogno di parlarne, di trovarne una soluzione, e la testimonianza dei fotografi è ancora di fondamentale importanza.

I/Reporter è così un esemplificazione moderna del ruolo del fotografo e della civiltà umana, uno specchio crudo e sincero su quelle che sono alcune questioni che ci riguardano tutti e che non possiamo più ignorare.

La fotografia traina il cambiamento ma non può esserne l’artefice: è l’uomo, ancora, ad avere il ruolo principale in tutto questo meccanismo. Capirlo è la prima fase per cambiare il mondo, un mondo che può ancora sperare di diventare migliore, e forse più bello.

Vedere questa mostra è quindi un passaggio obbligato per chi la fotografia la vive o per chi, ogni giorno, crede che ogni cosa sia solo frutto di un piano architettato dai media. Il dolore, la guerra e la morte esistono e Brown, con le sue fotografie, non fa che ricordarcelo.

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