Qualche giorno fa ho voluto soffermarmi insieme a te a riflettere per qualche minuto sull’etica della foto vincitrice del World Press Photo 2018. La foto in questione, scattata da Ronaldo Schemidt, riprende un manifestante venezuelano in fiamme durante quella che sembra essere una delle più gravi crisi del paese.
L’immagine è stata bersagliata da critiche legate all’etica e al come tutt’oggi i fotoreporter, o presunti tali, siano alla ricerca di questi scatti, pieni di dolore e sensazionalismo, per poter essere menzionati in qualche rivista o evento importante.
Da qui è scaturito in me un pensiero in riferimento all’etica nella Street Photography, un genere che vive ogni giorno in bilico tra il “giusto” e lo “sbagliato” e che ci mette spesso di fronte ad una domanda: è giusto scattare questa fotografia?
Scattare o non scattare?
Siamo in strada. Ci troviamo di fronte ad un senzatetto o ad una donna visibilmente in difficoltà. La scena non è niente di che ma il soggetto, per quanto distratto ed immerso nel suo mondo, ci trasmette qualcosa che pensiamo di voler comunicare con una fotografia.
Ci avviciniamo, in silenzio, per poi accorgerci subito dopo che lui/lei, o che la sua condizione, spesso indigente, non ci permette di andare oltre quel muro invisibile che ci divide e che crea una tensione palpabile a pelle. Quella foto non va fatta. Nessuno ce lo dice ma percepiamo, dall’aurea attorno a quel momento, che è cosi. O almeno pensiamo che lo sia.
Il dubbio ci assale, perché tante di quelle stesse fotografie sono state scattate e pubblicate sul web. Non vogliamo sentirci in difetto ed invece di chiederci quanto ci sia davvero di nostro in questo esercizio, continuiamo ad avvicinarci a quel soggetto, con la nostra fotocamera e con l’intenzione di scattare quella maledetta fotografia.
Chi realizza fotografie di strada si sarà trovato almeno una volta in questa situazione. È quasi impossibile evitare di entrare a contatto con i nostri soggetti “umani” e spesso, averci a che fare, ci mette di fronte a dilemmi di carattere morale.
È inutile nascondercelo, quei soggetti hanno un grosso peso nella nostra cultura visuale moderna e vederli impressi nelle nostre fotografie ci sembra essere una cosa innocua, naturale e, quasi, dovuta.
I film straboccano di eventi sensazionalistici e di protagonisti spesso fuori dagli schemi. Li vediamo raccontati nei nostri teleschermi e crediamo siano la normalità, il giusto modo di rapportarsi con il mondo. La realtà dei fatti è però di tutt’altra pasta.
La sofferenza non può essere una merce di scambio, come neanche un premio da mostrare agli amici durante una cena. Noi come fotografi non possiamo abbandonarci totalmente all’istinto e alla moda. Abbiamo un ruolo e un peso mediatico e scegliere di fare una cosa solo perché la fanno gli altri dimostra una nostra superficialità di intenti.
L’aspetto morale gioca un ruolo fondamentale nella produzione delle fotografie dei più importanti autori. Questo fattore è imprescindibile dalla loro narrazione e li fa scegliere, ancor prima di uscire dal portone di casa, di non mettere di fronte ai loro obiettivi, senza un vero motivo, senzatetto, bambini o persone sofferenti.
L’etica, in questi casi, è un donna burbera che ti bacchetta e ti frena dal fare cose sconvenevoli e avercela sempre a fianco, per quanto possa essere noioso, non può che farci bene.
Una scelta dovuta, rispettosa, nei confronti non solo delle persone ritratte, da cui ricordiamo, non riceviamo quasi mai la loro approvazione per la pubblicazione o la vendita di fotografie che li vedono protagoniste, ma anche nei confronti di chi le fotografie le guarda e le prende come esempio.
Che mondo sarebbe se tutti noi, senza ritegno, scattassimo e spettacolarizzassimo il dolore e la sofferenza altrui? Che fine farebbe la fotografia se tutti noi perdessimo quel minimo di umanità e sensibilità che ci rende artisti e ci differenzia dagli altri?
Un mondo molto vicino a quello reale, direbbe qualcuno — e mi troveresti pure d’accordo — ma un mondo in cui io, fotografo senziente ed empatico, mi sentirei di troppo. La fotografia deve unire e non creare divisioni.
Sarebbe troppo facile chiuderla così, ma il tema è suscettibile di varie sfumature e risulterei superficiale dicendoti che è sempre sbagliato scattare delle fotografie a questi soggetti (anche perché negherei la validità di buona parte della migliore fotografia di reportage scattata fino ad ora).
Mettiamola così. Dal mio punto di vista più scattiamo, più vediamo il mondo e più ci rendiamo conto cosa possa essere giusto o meno per il nostro lavoro, per la nostra coscienza e per chi ci guarda. Non sempre è giusto scattare e non sempre è giusto mettersi da parte. Dipende dai casi e, soprattutto, dalla finalità delle nostre immagini.
Ci sono eventi che meritano di essere fotografati, per motivi artistici e documentativi, indipendentemente dall’etica, e ci sono anche eventi per cui, noi fotografi, dobbiamo metterci da parte ed evitare di andare incontro ad azioni poco “lodevoli”.
Ad esempio, alcuni senzatetto sono quasi di casa e scambiano spesso qualche parola con i passanti. Fotografarli, per renderli partecipi del proprio lavoro, è una cosa positiva, di buon gusto. Altri invece sono restii a farsi inquadrare, percepiscono nel nostro gesto una violenza e per questo si allontano dall’obiettivo.
In quel caso è giusto fermarsi e passare oltre. Non dimentichiamoci che ogni istante od opportunità che ci viene offerta in strada sono dei “regali, delle concessioni fatte dalla persone per noi, e per questo motivo meritano di essere accolte con rispetto e devozione.
Quando ci troviamo di fronte a queste scene chiediamoci cosa vogliamo comunicare e se la nostra fotografia possa aiutare o meno le persone che la guardano a conoscere alcune situazioni o storie.
Se la risposta è no, lasciamo stare; se la risposta è si, mettiamoci di impegno e cerchiamo di approfondire le esperienze di questi soggetti ed aiutarli davvero nel concreto. Basta una parola, un contatto, per rendere questo esercizio superiore ad una semplice punta e scatta.
E non vale solo per i senzatetto, ma anche per quelle situazioni in cui persone sconosciute sono riconoscibili per una menomazione, per un difetto fisico o per un’accidentalità temporanea (tipo ubriacature, tradimenti od incidenti).
Li mettiamo dentro le nostre inquadrature e spesso, dopo averli fotografati, in quella condizione che ci sembra “normale”, non le aiutiamo e rimaniamo indifferenti alla loro sofferenza e alla loro diversità.
Molte persone vivono la strada e sono ben disposte ad avviare un dialogo. Noi fotografi, più che trattarli da animali da palcoscenico, dovremmo trattarli come umani, come membri attivi di un sistema che ci è estraneo, ma che dovremmo sforzarci di conoscere ed approfondire.
Da questa prima presa di posizione può nascere un progetto, un’idea, che vada oltre la sola pubblicazione online e che possa dar vita ad una sequenza positiva di eventi.
Perché, tolto questo, quanto credi siano interessanti questi momenti e quei soggetti registrati dalla tua fotocamera? Te lo dico io, meno di zero. La sofferenza, l’odio e l’infelicità non pagano quasi mai.
Insomma, come per ogni cosa, sta alla nostra coscienza capire quando una situazione sia favorevole o meno. Scegliere di non scattare, a volte, è più coraggioso di farlo.