La strada è un universo a parte. Molti la definiscono come un palcoscenico in cui la vita prende piede, in tutta la sua forza e schiettezza, altri invece come un campo di battaglia, in cui solo i più temerari, e dalla vista allenata, riescono a tirarsene fuori vittoriosi e soddisfatti.
Diverse filosofie che vedono il luogo e la sua interpretazione molto importanti, come anche i protagonisti e gli oggetti di scena, ma che spesso ignorano il vero protagonista di tutto il processo creativo: l’occhio, il regista che sta dietro la fotocamera e che magistralmente costruisce, all’insaputa di tutti, e anche spesso di se stesso, i suoi immaginari, pregni di sogni e di incubi ricorrenti.
Ad avermi colpito in tal senso negli ultimi mesi è stato il lavoro di Francesco Gioia. Francesco è un fotografo di origini fiorentine, trasferitosi da qualche anno in Inghilterra, e portatore di un’idea di fotografia di strada a dir poco iconica, quasi cinematografica.
La sua fotografia è talmente folle, inquietante ed interrogativa da aver destato immediatamente il mio interesse e da aver acceso in me quel campanello d’allarme, chiamato curiosità, finito poi nella costruzione di questa intervista riportata qui sotto. Credo che altre parole, al fronte di quelle di Francesco, siano superflue. Quindi buona lettura e buon viaggio nel suo mondo!
Intervista
TSR: Ciao Francesco! Grazie per essere qui a parlarci della tua fotografia e del tuo percorso da fotografo.
Grazie a te Gianluca per l’invito e per aver preso in considerazione il mio lavoro fotografico. Mi fa sempre piacere condividere la mia esperienza con altri appassionati di fotografia.
TSR: Seguo da moltissimo tempo il tuo lavoro e mi sono sempre chiesto come facessi a rendere così vive e tese alcune scene da te fotografate. Puoi svelarci il dietro le quinte del tuo processo fotografico?
La maggior parte delle mie fotografie nascono in maniera istintiva e immediata. Sono affascinato dall’ignoto, dalle immagini il cui significato è oscuro e multiplo.
Quando fotografo cerco di mantenere inalterata la scena, rispettandone soggetti e situazioni. Ricerco, durante la fase di ripresa, tutti quegli espedienti narrativi tipici del cinema, dell’arte e della letteratura per enfatizzare l’aurea di mistero ed incertezza attorno al momento da me pre-visualizzato.
In questo processo agiscono la scelta del taglio, lo studio della luce e dei personaggi: elementi che aiutano a catapultare le persone dentro i miei immaginari e a renderli senza tempo e descrittivi di una situazione che si svolge solo all’interno di quelle quattro mura, quelle fotografiche.
La tensione, l’ambiguità, l’irregolarità, l’esitazione e il mistero mi vengono spesso in aiuto e mi portano a percorrere strade narrative dalle molteplici declinazioni. Ogni momento fotografato è causale, accaduto in quell’istante e, forse, premonitore di ulteriori svilippi futuri.
Come avrai già ben compreso, ricercare questi elementi, e il farlo senza ricadare in facili esercizi di stile, è un processo molto lungo, incontrollabile e faticoso, ma ricco di enormi soddisfazioni.
Credo che sia fondamentale per ogni fotografo abbandonare l’idea di poter, o dover, avere il controllo completo sul proprio lavoro. Ogni tanto, farsi trasportare dalle situazioni, e dalle emozioni, è la cosa migliore.
TSR: Situazioni che, nel tuo caso, hanno un nonsochè di cinematografico. Credo sia innegabile l’influenza delle pellicole noir e del cinema espressionista tedesco nel tuo modo di “vedere le cose”. Dico bene?
La mia è una fotografia fatta di influenze, quelle buone, si intende. Queste non toccano solo il mondo del cinema ma anche quello della pittura e, ovviamente, della fotografia.
Negli ultimi due anni per esempio, mi sono ispirato molto alla fotografia di Werner Bischof, Masahise Fukase, Ken Graves, Andre Kertesz, Ray Metzker e Kazuo Kenmochi, ma anche alle opere pittoriche di Paul Klee, Jackson Pollock, William Baziotes e Norman Lewis.
Credo fermamente che conoscere e scoprire tutte le forme d’arte sia di fondamentale importanza per ogni fotografo. Accrescere la propria visione culturale ed intellettuale e, soprattutto, sviluppare la propria sensibilità, ti permette di non fermarti alla superficie delle cose e a vedere dove altri non vedono.
TSR: Il tuo amore per il cinema passa anche dalla scelta di inquadrare i tuoi soggetti con tagli molto stretti, come se volessi decontestualizzarli dalla scena. C‘è però dell’altro?
Il duplice potere della fotografia di appropriarsi di una porzione di realtà, creando da essa un significato completamente nuovo dal suo contesto originale, e nello stesso tempo, mostrandoncelo così com’è, mi ha da sempre interessato profondamente.
Uso le inquadrature strette per aumentare l’ansia e la tensione e simulare lo sguardo di una persona in preda all’atto del guardare. Per ottenere questo risultato mi servo di teleobiettivi — stringo l’inquadratura su occhi o piccole espressioni facciali che possano rivelare emozioni nascoste - o di ritagli eseguiti successivamente in post-produzione.
Ho sempre avuto questa fascinazione nel cercare di decontestualizzare i soggetti che ritraggo. Questa non è sempre la norma nel mio lavoro: talvolta uso riprese più larghe ed agisco più lentamente, focalizzandomi su una visione più ampia, ma preferisco, quando possibile, estrapolare i soggetti dal contesto in cui si trovano per sollevare domande e non offrire ai miei osservatori subito delle risposte.
Le persone messe davanti a una fotografia o a un dipinto in genere si aspettano una rivelazione istantanea, un messaggio chiaro o l’espressione diretta di un sentimento, piuttosto che di un’ostruzione.
Vedo queste fotografie come allegorie o metafore visive che sono rappresentazioni di qualcos’altro. Personalmente, trovo eccitante essere messi di fronte a un’enigma, qualcosa che non ha già parametri prestabiliti o una chiave di lettura facilmente accessibile ed ovvia.
Non amo definire o spiegare le mie fotografie in termini didascalici. Dal mio punto di vista non c’è mai una storia scritta o una maniera giusta o sbagliata di interpretare le fotografie e per questo ogni mia immagine, mi piace pensare, ha una storia a sé, una storia che si manifesta diversamente a secondo di chi la guarda.
TSR: Mistero, inquietudine ed attesa. Tre elementi che ricorrono spesso nella tua fotografia e che la definiscono. Ma per te, fotograficamente, qual è la ricerca visiva di Francesco Gioia?
La mia ricerca visiva, se proprio dovessi analizzarla, varia nel tempo e cambia costantemente. A volte si basa sull’esplorazione della memoria, della percezione e del passaggio del tempo. Altre volte sui miei stati d’animo o sull’esaltazione della natura dei miei desideri.
In questi momenti fugaci che catturo, cerco di registrare la luce specifica, la sensazione di un giorno particolare e i vestiti che la gente indossava in quel momento. La natura sfaccettata del tempo, scandita dal passaggio delle ere e dei suoi protagonisti, è una delle caratteristiche che studio, analizzo e ricerco più spesso.
Sono dell’idea che il significato di ogni immagine vada ricercato nella sua destinazione finale, non nella sua origine o nel suo intento. Per questo motivo non mi piace definire o chiudere la mia fotografia in un genere specifico o in un pensiero categorizzante.
Ciò che faccio è offrire semplicemente occasioni per rispondere/reagire. Il grosso lo fa lo spettatore quando entra a contatto con le mie fotografie. Mi fa piacere quando queste comunicano qualcosa e lasciano il segno.
TSR: Una libertà creativa che ti porta anche a variare repentinamente da colore a bianco e nero. Cosa ti fa scegliere uno rispetto all’altro?
Il colore è un processo psicologico e sapere come usarlo può creare determinate atmosfere. A volte uso la ripetizione di specifici colori come associazioni per collegare quel colore ad un soggetto o a un’idea che ho in mente, altre volte mi faccio trasportare invece dalle energie che emanano.
Non ci sono linee guida fisse per dire come usare il colore, ma capirne gli effetti cognitivi aiuta molto. Quando si parla di colore, la tonalità, la saturazione e il valore sono i tre elementi chiave: cambiandone uno di questi si cambia il tono dell’immagine.
Ad esempio, quando mi ritrovo a lavorare con una serie di fotografie che ho scattato e voglio metterle insieme, penso subito al fattore dell’equilibrio o della discordanza.
Nel primo caso scelgo un’immagine con un colore che non interrompa il flusso delle gradazioni; nel secondo una totalmente opposta, per creare un cortocircuito visivo. Ovviamente, questo crea una moltitudine di selezioni quasi infinita: tanti progetti che camminano in parallelo e che a starci dietro è, a volte, faticoso.
Nell’ultimo periodo ho voluto esprimere alienazione, desolazione ed inquietudine e l’utilizzo del bianco e nero, rispetto al colore, mi è tornato molto utile. La scelta di uno o dell’altro dipende dai casi e da cosa voglio comunicare al mio pubblico.
TSR: A cosa stai lavorando in questo momento?
Ho in cantiere diversi progetti tra cui la preparazione del mio primo libro e un progetto personale a cui sto lavorando da tempo e che non so se vedrà mai la luce. Sono comunque aperto ad accogliere nuove sfide. Non c’è mai fine alla mia voglia di crescere e mettermi alla prova.