60 fotografie che ci parlano di una società in transizione - ma non ancora, ahimè, del tutto cambiata
"Fotografia come libertà", recita il titolo che Renato Corsini e Margherita Magnino hanno scelto per contenere le sessanta fotografie in bianco e nero di Nicola Sansone, fotogiornalista italiano del secondo dopoguerra in mostra fino al 6 Maggio 2025 nelle sale espositive del Museo di Roma in Trastevere.
Un titolo curioso, evocativo, che getta subito luce su quelle che sono le dinamiche dell'ambiente giornalistico dell'epoca, un movimento che dal Sud Italia fino alle prestigiose redazioni americane di LIFE e Look Magazine, per dirne due, ha portato l'immagine fotografica al servizio della notizia; un contesto, come raccontano gli esordi della storica agenzia Magnum Photos, non privo di malfunzionamenti, perché spesso poco tutelato come dovrebbe.
E di libertà, giustamente, il percorso curatoriale ce ne parla in diverse forme, mettendoci sotto gli occhi lo sguardo modernissimo di un fotografo, «libero per scelta e indole», che nell'Italia del boom economico, nell'America vincitrice di una guerra e nel Giappone piegato dalle bombe nucleari (le tre tappe dell'esposizione) ci svela le sottili trasformazioni di quei luoghi che saranno presto il centro del mondo. Sono passato alla mostra, e a dispetto di qualche piccola imperfezione, imputabile alle stringenti risorse economiche, quello che ho visto mi è piaciuto molto.
L'identità fotografica
Il nome di Nicola Sansone ti dirà poco. E questo è quasi naturale. Salvo che tu non abbia vissuto quegli anni ferventi del fotogiornalismo italiano, o letto alcuni libri sull'argomento (c'è n'è uno di Iuliano Lucas immancabile), le sue immagini ti appariranno originali, proprio perché tornate solo di recente sotto i riflettori (2020) grazie al lavoro di ricerca e archiviazione dei negativi portato avanti da Renato Corsini e da Lea Sansone, figlia del fotografo.
Anch'io, a dirla tutta, avevo letto di lui solo di sfuggita su delle riviste. Delle sue fotografie ero quasi scevro; ne avrò vista una o due massimo, le più famose. Il resto era buio totale. La mostra non poteva quindi che aprirsi con un enorme cartellone informativo dedicato a questo "misterioso" fotografo; e proprio lì, nero su bianco, ne riscopriamo gli esordi, le amicizie fotografiche, i documenti personali e l'agenzia Realfoto: fondata con Calogero Cascio, Caio Mario Garrubba, Franco Pinna e altri nel 1957.

Nicola Sansone, in breve, è un fotografo napoletano (1921-1984). Quando inizia ad avventurarsi nel mondo della fotografia professionale ha poco più di vent'anni ma già una visione ben chiara in testa: vuole viaggiare, scoprire, raccontare, e farlo attraverso un timbro linguistico riconoscibile. Ma soprattutto, vuole fotografare senza avere una redazione giornalistica alle calcagna, perché le uniche committenze che possono dettare tempi, modalità e luoghi del suo peregrinare nel mondo sono «l'onestà intellettuale e la voglia di essere testimone oculare di eventi».
Nell'epoca più fervente per la fotografia giornalistica italiana, ovvero gli anni '50 e '60, nella sfera di Roma e Milano, Nicola Sansone, insieme al fratello Antonio, coprirà diverse inchieste, rendendosi narratore del lento sviluppo del meridione, della nascita di nuovi partiti e di eventi storici cruciali per il futuro di alcune relazioni internazionali ancora oggi parecchio instabili. Ha fotografato in Algeria, Congo, Cuba. Ma anche nei Paesi Arabi e in tutte quelle zone chiamate del "socialismo reale". Ha pubblicato le sue fotografie sulle pagine dell'Espresso, Vie Nuove, Le Ore, Il Mondo e Stern: giornali di sinistra, per la maggiore, proprio perché più vicini alle sue idee progressiste, di libertà e pace.
La permanenza nella Cooperativa Fotografi Associati, prima, e poi, al suo scioglimento, nell'Agenzia Realfoto, hanno permesso a Sansone di scegliere le sue storie da raccontare, dando così dignità a un modo di fotografare la realtà molto moderno per i tempi. In altri luoghi, la sua fotografia, non era così ben accetta. Come anche quella dei colleghi; gli stessi oggi nei libri di storia.
Una visione immancabilmente italiana

Percorrendo le sale del Museo di Roma in Trastevere una cosa mi è subito chiara: lo sguardo di Nicola Sansone si muove agevolmente tra tutte le pieghe della contemporaneità. Indipendentemente dal paese sotto la sua lente di ingrandimento, Sansone è sempre lì, nei luoghi dove le cose accadono, dove gli episodi della quotidianità comunicano, con trasparenza, umori e gioie del popolo.
Lo spirito che dovrebbero avere tutti i fotogiornalisti che hanno l'ardire di nominarsi tali, no? Eppure nel fotografo napoletano questa indole curiosa e indagatrice si declina in una forma tutta personale, che dalle vicende del volgo ci porta alle traboccanti località turistiche americane. Il collante tra le narrazioni è sempre la strada, il contenitore umano in cui Sansone si trova più a suo agio.

Guardando le immagini esposte nelle sale, non posso che scovare quei tratti tipici della fotografia italiana del secondo dopoguerra. Il bianco e nero, in primis, ricco di grigi e sfumature, ma anche un approccio alla materia sociologica che sembra volersi muovere nell'ordinario in punta di piedi, come se quel matematico equilibrio tra il pubblico e il privato, che Nicola Sansone ricerca avidamente nelle sue fotografie, possa rompersi da un momento all'altro, turbarsi anche solo con una parola messa fuori posto.
L'occhio del fotografo napoletano è attratto costantemente da qualcosa. Le tre tappe dell'esposizione, Italia, America e Giappone, ce ne danno un limpido esempio. In Italia, Nicola fotografa il meridione, le riunioni politiche e le tradizioni permanenti. Lo fa con zelo, spirito partecipativo. Vuole che le cose cambino e che l'Italia cresca. Al contrario, in America, sfugge momentaneamente alle periferie, per lasciarsi stupire dall'opulenza e i dislivelli di quel popolo che ha vinto la guerra, e che tuttavia nasconde qualcosa.
Sebbene ogni località mantenga le sue caratteristiche, alcuni elementi ritornano come note musicali nelle immagini, definendo un linguaggio fotografico moderno, diretto e, a tratti, riconoscibile.

Povertà, ricchezza, conflitti sociali e spiragli di civilizzazione si fanno parole ricorrenti nello sguardo di Sansone. Attraverso la strada, l'ironia e, soprattutto, la figura della donna, in parte idealizzata, e grosso modo indagata mediante tracce anticipatrici di un'emancipazione civile che anni dopo si farà ancor più evidente nel dibattito pubblico, il fotografo ci interroga sul presente e il futuro dell'uomo, su quelle che saranno le forze al comando del mondo e le nuove battaglie da combattere. Uno sguardo che non mi sento di dire fatalista bensì che riesce anche nelle evidenti contraddizioni politiche e sociali ad intravedere una luce. Una bellezza latente, fiochissima. Una visione immancabilmente italiana.
Il bisogno di libertà
Mi dirigo nell'ultima stanzetta, la più piccola, in fondo a destra, dove i curatori hanno inglobato parte dell'archivio delle immagini di Nicola scattate in Giappone. C'è pure una teca con le sue macchine fotografiche utilizzate durante i servizi (per i patiti dell'attrezzatura vintage, ci trovate lì una Leica M2 e una Rollei Rollecord). Le macchine sono straordinarie. Consumate. Utilizzate. E credo anche funzionanti, come molte analogiche dell'epoca dove i materiali erano resistentissimi, e fatti per durare.
Tuttavia a colpirmi è soprattutto la sua fotografia di strada, sulle pareti. Diretta, documentale, vicina alle persone. Una fotografia che non ha, evidentemente, la foga e l'asprezza di quella riscontrabile in autori come Shomei Tomatsu o Ishiuchi Miyako, che hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell'occupazione americana del suolo giapponese, ma che comunque risulta essere stimolante, rivelatrice di momenti quotidiani straordinari e di inconfessabili sospetti. Le sue scene comunicano, e lo fanno con estrema trasparenza e rigore.

E allora non può che rivenirmi in mente, volgendo un ultimo sguardo a quelle fotografie sparse nelle sale, il titolo della mostra, "fotografia come libertà", perché a pensarci bene le immagini di Nicola Sansone non si lasciano inquadrare così facilmente. Sfuggono; anche loro vogliono essere libere, come le mani di chi le ha prodotte. Solo uno sguardo che sa riconoscere l'importanza di questo privilegio, può capire quanta fortuna abbiamo noi oggi nel poter dire e fare quello che vogliamo. Quale lungimiranza ebbero Sansone e alcune riviste italiane dell'epoca, come "Il Mondo", nel cogliere il bisogno di libertà e libera espressione.
Non portatemi sequenze fotografiche, datemi delle immagini incisive e fugaci del vostro modo di vedere la realtà - Mario Pannunzio (direttore del "Il Mondo")
Una rottura definitiva con l'oggettività di un fotogiornalismo tanto noioso quanto antiquato. Un'oggettività che viene meno di immagine in immagine, perché la fotografia, anche quando non lo si vuole, è lo specchio della nostra anima.
Una fotografia in particolare, in mostra, me lo ha ricordato, facendomi sussultare e dire: "solo uno come Nicola poteva scattarla!". Una ripresa dall'alto, su un fiume, degli alberi a fare da cornice. Al centro, una coppia, seduta su una panchina che sembra esporsi verso le rive di un futuro roseo. Un'inquadratura che ricorda il Lungo Tevere di Roma, quella malinconica bellezza per il quotidiano che solo i fotografi italiani sanno custodire e raccontare. Tutti, anche i migliori, ricercano un pezzetto di casa quando sono in giro per il mondo.

Fonti utilizzate:
- Nicola Sansone - La fotografia come libertà (Museo di Roma in Trastevere)
- La retrospettiva di un protagonista della “scuola romana” di fotogiornalismo: Nicola Sansone (aboutartonline.com)
- Nicola Sansone, pescando nella «cassaforte» dei negativi e della camera oscura (ilmanifesto.it)


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