Il documentario di Dyanna Taylor ci racconta il lato più umano di Dorothea Lange: una splendida persona, prima che grande fotografa

«Quando ho detto che sto cercando di perdermi di nuovo, ho espresso la necessità di trovare un punto di partenza molto scomodo. Questo è lo stato d'animo di cui si ha bisogno per poter scattare delle belle foto di un soggetto meraviglioso. Non si possono fare belle fotografie se non ci si perde. Sto cercando di perdermi di nuovo».

Le parole che hai appena letto sono di Dorothea Lange. E quello che ho provato, ascoltandole ieri per la prima volta dalla sua stessa voce, sono stati brividi di un'emozione cristallina; una sorta di gioia, accesa, folgorante, generata dalla rinnovata scoperta di una profondità artistica che non percepivo da tempo; e che in Dorothea brilla come una fulgida stella dipinta di mille colori.

Quelle frasi mi sono subito risuonate amiche. Le avrei custodite, sul momento, se solo avessi avuto un contenitore in cui inserirle. Un taccuino, magari, o anche solo un vecchio registratore. Una scatola da poter mettere sotto il letto e recuperare in qualsiasi istante. Tuttavia, i miei sforzi sarebbero risultati vani, perché un contenitore, in effetti, le frasi già lo hanno ed è a nostra disposizione.

In "Dorothea Lange: Grab a Hunk of Lightning", documentario diretto dalla nipote Dyanna Taylor e da qualche giorno visibile gratuitamente su Rai Play, quelle stesse frasi risuonano già di per sé fortissime, facendoci da dolce introduzione a quello che è un altrettanto dolce ricordo della fotografa che ha combattuto i pregiudizi dell'epoca e fatto luce su quell'America che così tanto forte e robusta forse non era.

Un documentario che mi ha riportato a miei primi studi fotografici e messo a conoscenza di una Dorothea Lange spesso lasciata in disparte: la Lange madre, moglie e fotografa di atelier. Insomma, una Lange, e un prodotto audiovisivo, di cui dovevo parlarti.

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