“Date in mano una fotocamera ad un bambino e lui conquisterà il mondo”.
SIRIA è guerra. Un accostamento che risuona nella nostra mente e che ci fa pensare immeditamente al dolore e alla morte. Vedere oggi questa zona del nostro pianeta colpita da incessanti bombardamenti, da scontri infiniti e da esodi di persone che si spostano da un luogo all’altro, pur di non cadere in balia del nemico, fa ormai parte dalla nostra quotidianità.
SIRIA è strazio. Un aggettivo pesante che oggi non ci lascia via di scampo. Il suo suono è talmente forte, aspro e risonante nell’aria, da invadere una stanza e da oscurarne i punti luminosi.
SIRIA è speranza. Una terra martoriata dalle battaglie in cui persone straordinariamente comuni combattono ogni giorno, su più fronti, e contro più nemici, alla ricerca di una pace insperata.
SIRIA è da oggi anche Sirkhane Darkrook. Un progetto nato nel 2017 che tenta, attraverso la fotografia, di dare una possibilità a tutti quei bambini che hanno perso la casa, la famiglia e gli amici offrendogli l’occasione di esprimersi senza vincoli o pressioni sociali.
Tutto nasce dall’idea di un fotografo, Serbest Salih, che dopo aver assistito per anni alla degradazione di un territorio a lui molto caro, ha deciso di ritornare nella sua terra natale e di insegnare i segreti della camera oscura ai profughi, ai bambini e ai ragazzi al confine tra Siria e Turchia.
Un progetto itinerante che ha coperto nel tempo quasi tutto il confine siriano e che ha accolto, fin dalle sue prime esperienze, qualsiasi punto di vista proveniente dall’esterno.
Fotografia e socialità. Due contraccettivi per scampare alla frustrazione di un’esistenza che sembra essersi scordata da tempo delle sue creature più deboli e che oggi sono alla base di quest’iniziativa incredibilmente funzionale.
E torniamo sempre lì, a dire che la fotografia salva delle vite, crea delle connessioni e permette a tutti, in una maniera splendidamente democratica, di raccontare quello che vediamo e percepiamo dello spazio che ci circonda.
Perché la fotografia, al contrario di altre arti, è immediata, veloce e comprensibile. Tutti vediamo e tutti siamo curiosi di vedere come la realtà ci appare dentro un‘immagine, dentro una cornice più magica che concreta.
Ma qui, rispetto a tutto quello già visto in passato, e che coinvolge i ragazzi, c’è di più. Questo progetto, di recente diventato un libro fotografico dal nome di “I saw the air fly” edito Mack, ci racconta un’altra faccia della Siria, una che prova a tutti i costi a rialzarsi da terra, a curare le proprie ferite e a pensare, ostinatamente, che le cose, prima o poi, cambieranno.
L’atto del fotografare è un atto di liberazione, un rituale in cui ci si spoglia di tutte le pressioni e di tutti i pesi. Potremmo definirlo un gesto di rivalsa, che lascia spazio solo alla parte migliore di noi stessi, quella che desidera una voce, un palcoscenico in cui esprimersi, e che trova qui il suo posto sicuro.
Tutte le immagini di “I saw the air fly” sono scattate e sviluppate dai ragazzi. I “piccoli fotografi” sono stati muniti di semplici macchinette analogiche, dal costo irrisorio, ed istruiti dei principi base della camera oscura — lo stretto necessario per stampare e sviluppare le proprie opere.
Dentro le loro inquadrature, a dispetto di tutti i pensieri che possiamo avere sul territorio, e che sono stati influenzati nel tempo dai media, vediamo visioni di speranza, in cui il gioco, l’immaginazione e il sorriso diventano degli alleati imbattibili: paladini che sembrano poter resistere a tutto, anche agli aerei che passano velocemente in cielo e che minacciano la sopravvivenza di intere famiglie.
“Io fotografo, quindi esisto e so che esisterò per sempre”. È questo pensiero ad accompagnare i ragazzi nella realizzazione delle loro fotografie. Ritrovarsi in quello che si crea, poterlo toccare e poterne percepire ogni sfumatura è la sensazione che tutti provano dopo aver registrato un momento nella propria macchina fotografica.
Vederlo però apparire, successivamente, in camera oscura, è tutt’altra cosa: è come rendere concreto quel desiderio di una vita diversa spesso solo immaginato e decantato dai media. L’apice della creazione e della rinascita in tutto e per tutto.
È incredibile constatare come le immagini che costruiscono l’enorme libro di “I saw the air fly” siano fotografie pregne di sincerità, di innocenza e di gioia. Sembrano immagini scattate da un’altra dimensione, in un luogo che ha chiuso da tempo la porta al dolore e alla rassegnazione.
Sono fotografie lungimiranti, prive di posizioni politiche ed aperte al dialogo. Più che sogni nel cassetto, sono delle chiare intenzioni su come vivere e concepire la vita da qui fino alla fine dei giorni.
Sfogliare le pagine di questo libro, seppur in maniera totalmente digitale — ho potuto solo dare un’occhiata veloce a quello che è disponibile sul sito della Mack — mi ha fatto venire i brividi perché di fotografie così dirette, umane e sgrammaticalmente sincere non ne vedevo da anni.
Pochi soggetti, spesso amici e famigliari incorniciati in scene in cui è palpabile la trasparenza delle loro emozioni. Piccoli frammenti di vite comuni che insieme costruiscono un racconto veritiero e toccante.
Da amante della fotografia vedere un’operazione di questo genere mi riempie il cuore di speranza, di felicità, perché la morte e la crudeltà umana sono sempre state al centro delle fotografie di guerra: gli unici soggetti da inquadrare e da vendere ai giornali.
Per quanto da una parte riconosca l’importanza di queste testimonianze della storia umana, del farci conoscere il bello e il brutto del mondo, dall’altra parte mi piace pensare che la fotografia di guerra possa essere interpretata e raccontata anche in un’altra maniera.
C’è posto per la rinascita e per vedere una luce in fondo al tunnel. C’è posto per la gioia, anche se presente in una piccola porzione di spazio e contemplata da poche persone. C’è bisogno di vedere un barlume di speranza anche attorno alla distruzione più totale.
Questo progetto ci insegna che gli unici che possono percepire l’aurea di un cambiamento, senza essere corrotti dalla politica o dal senso comune, sono proprio i ragazzi: sempre aperti ad accogliere il dono della uguaglianza, della libertà e della schiettezza.
Le loro non saranno fotografie pazzesche, ricche di pathos o tecnicamente perfette, ma per certi versi, sono migliori di molte altre viste giornalmente sui Social Networks.
Sirkhane Darkrook, in tal senso, è stata una bella scoperta e da studioso di fotografia non potevo non raccontarti questa sua incredibile storia.
Fonte: CNN, ilPost, The Washington Post e Sirkhane Darkroom