New York, fine anni '70. Un lampo intermittente rosso e blu fende l'oscurità delle strade newyorkesi rischiarando, con la sua luce soffocante, le escrescenze del terreno irregolare.
È una sera come le altre nella Grande Mela e seduta nell'autovettura della polizia che sfreccia verso una delle tante chiamate anonime, non c'è un delinquente o un assassino, ma una ragazza esile, sorridente e munita di macchina fotografica.
Lei è Jill Freedman e quello che starà per realizzare quella sera è uno dei reportage più forti e discussi del XX Secolo: "Street Cops", un ritratto amaro, trasparente e bonario, per certi versi, del corpo di polizia di New York.
Ma partiamo dall'inizio.
Jill Freedman è una fotografa americana nata a Pittsburgh, Pennsylvania, nel 1939. Dopo una laurea in sociologia conseguita all'università del suo paese, e una breve sosta nel mondo della pubblicità, Jill si appassiona alla fotografia decidendo, in tempi non sospetti, di raccontare con le immagini tutto quello che la incuriosiva.
Inizia da New York, la città delle città, inquadrando nella sua Leica l'ironia e la bellezza del vivere quotidiano, fino ad arrivare in Europa, nel cuore dell'Irlanda: la sua è una visione dissacrante che sottende un certo ottimismo e una irreprensibile fiducia nei confronti del genere umano.
Fotografia di strada in primis, ma non solo.
Nel suo enorme archivio in bianco e nero c'è posto anche per lavori più intensi, nati da una necessità di trovare una risposta ad un quesito preciso. È il caso di "Firehouse" (1977), progetto che racconta le difficoltà e il coraggio dei pompieri, ma anche di "Circus Days" (1977) che svela la tristezza e la fragilità dei protagonisti di un qualunque spettacolo circense.
In mezzo, tra questi lungi racconti, c'è "Street Cops", il suo capolavoro.
"Street Cops" è un progetto fotografico che mette fin da subito in chiaro le sue intenzioni: mostrarci un volto diverso, equilibrato e meno aggressivo, della polizia americana.
Negli anni '70 la caduta finanziaria della borsa di New York ha accentuato considerevolmente le differenze tra poveri e ricchi, aprendo le porte alla microcriminalità e all'aumento di una forma di scetticismo - razzismo - nei confronti del diverso.
Di conseguenza, la polizia, è stata munita di più poteri e libertà, offrendo così una maggior sicurezza ai cittadini e, di traverso, il rischio di macchiarsi di diversi casi di violenza e abusi di potere nei confronti di sospettati o presunti autori di reati.
Insomma, non proprio un bel periodo per farsi beccare in flagrante.
Jill Freedman ascoltava le notizie e si faceva molte domande in merito. Aveva bisogno di risposte, era scettica, come tutti noi, e "Street Cops" è stato il suo modo di scoprire il velo di Maya e capire, attraverso il mirino della sua macchina fotografica, quali sfumature ricorressero nelle file della polizia.
Ebbe quindi un'idea: il miglior modo per farlo, per raccontare questa storia senza lasciare niente al caso, era seguire il "soggetto", come pari, in uno dei suoi tanti turni notturni: il momento in cui dava il meglio, e il peggio, di se.
La raccolta che ne è venuta fuori, poi diventato un volume pubblicato nel 1981, ci mostra un universo iconico, fatto da una parte di violenza, sangue, rancori e droga e dall'altra di sorrisi, coraggio, empatia e dolcezza.
Jill Freedman è una giudice imparziale, cerca di trovare un equilibrio tra quella retorica tipica dei giornali, che ponevano, a secondo dei casi, la polizia come salvatrice o peccatrice, e il punto di vista di chi la polizia la conosce nel profondo.
Questo modo di fare, da molti criticato, ha rappresentato una novità nell'epoca e ha permesso, a chi prima aveva tenuto ben salda la sua convinzione, positiva o negativa, sulla polizia, di rimischiare di nuovo le carte in tavola.
Buoni o cattivi? La situazione è molto più complessa di quanto uno possa immaginare e spesso, quando si parla di natura umana, la verità sta nel mezzo.
Jill Freedman ha cercato di narrarci una storia non prendendo posizione ed inquadrando solo quello che riteneva potesse essere utile a farsi un'idea totale e libera del fenomeno.
Certe volte mi ricordano i bambini. Credono nel giusto e nello sbagliato, nel bene e nel male, nei buoni e nei cattivi, nella giustizia, in senso lato - Jill Freedman
Le fotografie sono forti, cruenti, pungenti, ci svelano il dietro le quinte di un mondo che ci affascina da sempre e che la televisione, come anche il cinema, hanno provato a restituirci, invano, sui nostri schermi.
Le sue non sono semplici rappresentazioni da voyeur, o da chi cerca il sensazionalismo, alla Weegee insomma, concetti molto lontani dalla fotografia della Freedman, ma di chi tenta, innocentemente, di scassinare le catene di una porta inaccessibile.
Quello che vediamo è quello che ci aspettiamo solo in parte. Poliziotti pronti all'azione, arresti cruenti, volti tumefatti dalle botte, sangue e manganelli: nel contorno, quando la narrazione si sposta troppo verso l'ingiusto, il resto, il bilancino morale "da poliziotto buono e cattivo".
E qui sorge un problema, un conflitto di interessi se vogliamo.
Il lavoro di un buon fotogiornalista che si rispetti è quello di renderci partecipi di storie ed eventi molto vicini, o lontani, da noi. Farlo in maniera personale e decisa ci mette, a volte, in situazioni discutibili (e anche quando pensiamo di essere totalmente estranei al fenomeno scegliamo da che parte stare).
Vivendo a stretto contatto con la polizia, è innegabile, Jill ha vissuto momenti molto rischiosi: si è affezionata a diversi poliziotti e poliziotte e spesso, questa cosa, si è ritorta contro di lei (fotograficamente parlando).
In alcune immagini sono presenti volti e personaggi non più sconosciuti, ma componenti attivi della vita della fotografa. Se questo l'ha aiutata a capire, grosso modo, certe dinamiche, dall'altra ha attenuato le risposte da parte dei suddetti.
Un piccolo dettaglio - trascurabile o non trascurabile, non sta a me dirlo - che non lede completamente la qualità di una serie fotografica che rimane ancora oggi iconica, ma che elimina, parzialmente, la sua natura giornalistica.
Perdoniamo Jill di questa innocente caduta, se mai dovessimo permetterci di dirle qualcosa contro, perché questo lavoro, in fin dei conti, è una lezione di fotografia: un modo per ricordarci che non esiste bene e male, in senso radicale, ma un bilanciamento di mille sfumature che girano attorno al tema.
Fare fotografia, in modo serio, è anche questo.