The Camera is God rappresenta la quinta essenza di una società corrotta che ha barattato la propria identità con la promessa di una sicurezza totale della propria specie.
Osserviamo e veniamo osservati in continuazione. Viviamo in un mondo fatto su misura dove il compromesso alla nostra sicurezza è il venir spiati, senza riserva, e senza saperlo, da molteplici occhi sparsi per l’impianto cittadino.
In The Camera is God di Trent Parke questo concetto viene esasperato alla massima potenza. Il risultato di questo progetto, frutto di ore e ore in mezzo alla folla, è talmente ambiguo, oscuro e misterioso, da farci dimenticare che quelle ritratte, non sono visioni fantastiche od oniriche, ma delle versioni distorte di una realtà ormai imbrigliata in un percorso fatalistico, dove ogni persona, nella sua singolarità, ha perso ormai di importanza.
Il pubblico e il privato si sono uniti. Non esiste più una differenza, e i visi catturati con un escamotage, talmente banale, ma straordinariamente funzionale, dal fotografo australiano, ci mette a confronto con una risoluzione degli eventi che non ci lascia scampo: siamo numeri di fronte a questi occhi tecnologici.
Tutto parte da questa voglia di voler analizzare un processo ormai naturale nella nostra esistenza da cittadini di mondo: l’osservazione perpetua dei nostri movimenti da parte di telecamere di videosorveglianza. Un concetto che ben conosciamo e che abbiamo imparato ad apprezzare con un certo tipo di letteratura fantascientifica dell’ultimo periodo.
Ma Parke è andato oltre all’aspetto sociologico. Ha costruito una vera e propria raccolta di “creature” della strada, equiparabile, se non addirittura superiore, a delle illustrazioni horror del miglior disegnatore al mondo.
Ci ha costruito sopra una sequenza che, nel suo insieme, raggiunge dei livelli di turbamento visivo che ci lasciano senza energie. Un grande mosaico senza speranza di una specie ormai priva di radici culturali e semiotiche.
Ma come nasce The Camera is God?
Trent Parke ha scelto diversi angoli di una strada trafficata, ha lasciato lì la sua fotocamera sul cavalletto e, senza osservare chi o cosa gli passasse davanti, ha scattato numerose fotografie in successione.
Per non farsi notare, ha sfruttato un filo per scatti in remoto. Le sessioni di scatti duravano un’ora/due ore massimo al giorno. Il progetto è stato completato in circa un anno.
Il fulcro del lavoro si concentrava tutto nella camera oscura. Tornato a casa dalle sessioni, sviluppava i rullini, che come avrai già capito, erano più di quelli che consumerebbe in un anno un fotografo amatore, e, con un fare da chirurgo esperto, ritagliava i volti nella folla che gli interessavano di più.
Il fotografo, non avendo controllo della macchina, e non vedendo cosa si frapponesse davanti a lei, si faceva trasportare dai sensi dell’udito e dell’olfatto. Non vedeva le scene, ma percepiva che lì in mezzo stava accadendo qualcosa.
Quello che si è trovato davanti ai propri occhi, alla fine del processo di sviluppo, era una schiera di ripugnanti distorsioni di volti che, nella loro moltitudine, dava vita ad una visione talmente particolare della realtà, da fargli desiderare di continuare il progetto per molti mesi.
Racconta Trent Parke che questo modo malato di visionare le persone, lo faceva sentire come uno scienziato pazzo alla prese con la sperimentazione di qualche strano intruglio.
Era come se potesse visionare, a pelle, e ad occhio nudo, le particelle e l’elettricità che compongono ogni essere umano nella sua interezza. Una sensazione dovuta alla grana, ricca e particolareggiata, e a queste sfumature che rendono effimero qualsiasi forma che le attraversa.
Siamo fatti di materia, ma nelle fotografie di The Camera is God è come se quest’ultima si dissolvesse nell’aria: la rappresentazione perfetta della transitorietà umana.
Il concetto di morte, tipico della filosofia di Parke, ritorna, ancora più forte in questo progetto. E nell’enorme griglia di immagini, esposte per l’occasione alla Monash Gallery of Art, la sola idea di trovarci di fronte a questa classificazione quasi scientifica di esseri, ci opprime, e ci disorienta a tal punto da farci porre delle domande.
Un muro dei caduti, o l’identikit di presunti assassini. Questa griglia ci fa vagare con l’immaginazione e ci fa chiedere chi siano queste persone.
Io, di fronte a queste immagini, mi ammutolisco, mi meraviglio e mi spavento. Un susseguirsi di emozioni che solo uno come Trent Parke poteva riuscire a stimolare con un singolo progetto, e con una modalità di ripresa al limite del risparmio.
Se il voyeurismo avesse una forma definitiva ed evoluta, beh, sarebbe senz’altro questa.
Fonti utilizzate:
- The Camera is God, Trent Parke (magnumphotos.com)
- Trent Parke: The camera is god’ at the Monash Gallery of Art (artblart.com)