Un tempo molte delle fotografie scattate dai, e dei, nostri cari rimanevano a marcire dentro uno scatolone impolverato. Me lo sono sempre immaginato come un Gulag, in cui le peggiori fotografie andavano ad espiare le proprie colpe - immaginarie - prima di tornare a fare capolino da un sordido scaffale della cantina.

Più o meno, il sondaggio, agiva così: le più fortunate finivano in un album, attaccate con materiale corrosivo su pagine sottili come tovaglioli; le altre invece, fuori fuoco o poco sorridenti, finivano accatastate in una vecchia scatola da scarpe, legate con uno spago ruvido, a contatto con altri oggetti di poco conto.

Nessuna di queste, se non dopo varie revisioni, veniva cestinata o strappata. Il sol pensiero, per un padre-fotografo, di eliminarne anche una sola di loro era un dolore atroce, impensabile, come se il farlo infrangesse qualche patto segreto instaurato tra l'osservatore, i soggetti e il creatore di quelle immagini.

"Le fotografie, quelle nostre, sono come figli. È difficile liberarsene!" Diceva, un padre qualunque negli anni della pellicola a colore. Oggi, mi verrebbe da dire, ce ne liberiamo con fin troppa facilità, convinti che la prossima sarà la migliore.

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